Carola Barbero, Addio

Prima del triste e difficile addio / non dire che non ci sarà un altro incontro. / Ho il dono segreto e strano / di farmi da te ricordare. // In un altro paese, nell’esilio lontano / un tempo, quando verrà il tempo, / ti ripeterò con un’unica allusione, / un verso, un moto della penna. // E tu leggi come il pensiero mi ha ridato / e le tue parole di un tempo e l’ombra, / guarda di lontano come ho trasfigurati / questo giorno o quello appena trascorso. // Quale altro incontro vuoi per noi? / Con un unico verso ti restituisco / i tuoi passi, inchini, sguardi, parole – / di più da te non mi è dato.

(Nina Berberova)

E in ultimo ti dirò: – Addio, / e non promettermi amore. / Perderò la ragione. O troverò / la sublime serenità della follia. // Come mi hai amato? Pregustando / l’offesa della fine. Ma non è questo… / Come mi hai amato? Offendendo i principi / dell’amore. Ma in modo così goffo… // Crudeltà del fallimento, io / non ti perdono. Vivo, cammino, / vedo il bianco mondo, / ma il corpo mio è deserto. // La mente vorrebbe ancora un piccolo / lavoro. Ma son deboli le mani. / E uno sciame di odori e di sapori / in volo sghembo si allontana da me.

(Bella Achmadulina)

Il tema dell’addio costituisce un elemento cruciale nell’ambito della storia dello “spirito”, indipendentemente dalle singole culture o dalle modalità di rappresentazione artistica utilizzate: pittura, letteratura, cinema, canzone, ecc. Consapevole di questa lampante, ma mai scontata evidenza, la filosofa Carola Barbero, offre ai lettori italiani un agile, chiaro, suggestivo volume dedicato ad un’esperienza-limite “universale” – quella dell’addio – patita nella carne e nell’anima da ogni singola esistenza, come irrimediabile (talvolta mortale), lesione. Cosa accade infatti a chi resta? Che ne è di chi resta dopo un abbandono? In quale mondo si ritrova a vivere colui che ha subìto un’incomprensibile e repentina separazione? Qui la ragione vacilla, barcolla, cioè non trova appigli o sostegni, perché il cuore fa troppo male: “sanguina e brucia come una piaga insanabile”, affermerà il pittore norvegese Edvard Munch.

A mo’ di esempio, analizziamo brevemente qualche frame cinematografico, per tentare di capire se la “settima arte” possa aiutarci a stabilire un nesso caratterizzante il vissuto dell’addio, facendo riferimento en passant a: Film bianco di Krzysztof Kieślowski (1994), Eternal Sunshine of the Spotless Mind di Michel Gondry (2004), Cashback di Sean Ellis (2006) e a Un amour de jeunesse di Mia Hansen-Løve (2011). Cosa accomuna queste trame narrative, apparentemente distanti e diverse, se non la messa in scena di una profonda solitudine e di un ineffabile dolore, conseguente ad un distacco improvviso e inatteso?

Nel primo film, il protagonista polacco Karol, perdutamente innamorato della sua Dominique, la implora e la insegue con affanno, mentre lei cinica, gli mostra totale indifferenza, spietato disprezzo e, anzi, sadico compiacimento per la sofferenza inflitta. Nel secondo caso, Joel abbandonato da Clementine, nella scena iniziale del film, barba incolta e gesti lenti, ha difficoltà ad alzarsi dal letto per andare a lavoro. Decide in pieno inverno, nel giorno di San Valentino, di rifugiarsi su una spiaggia deserta: “Oggi è una festa inventata dai fabbricanti di cartoline d’auguri per fare sentire di merda le persone. Non sono andato al lavoro oggi […]. Forse mi sono svegliato solo un po’ depresso…”, dichiara. In Cashback, il giovanissimo Ben, abbandonato dalla sua ragazza Suzy, inizia a soffrire d’insonnia e non si dà pace per un amore infranto; la sua mente ora è tutta rivolta al passato, ai ricordi accumulati, e per tentare di dimenticare non gli resta altro da fare che bruciare le fotografie scattate insieme: “Non pensavo che sarebbe stato simile ad un crash test. Ho schiacciato i freni, e sto slittando verso un impatto emotivo”. Nell’ultimo lungometraggio citato, infine, questa volta è la figura femminile, la quindicenne Camille, a soffrire la dipartita dell’amato Sullivan: “Piango perché sono malinconica. […] L’amore e l’unica cosa che conta per me, la mia sola ragione di vita”.

Ecco, il prezioso libro di Carola Barbero ha l’innegabile merito di descrivere e dettagliare, con rigore speculativo e l’ausilio di esempi concreti, tratti dalla quotidianità, ma anche dalla tradizione poetica, canora, cinematografica, cosa generalmente accade nel copione degli addii, quali sono le dinamiche psicologiche e relazionali che vengono ad attuarsi in una coppia al capolinea di un’esperienza amorosa attraverso delle parole chiave quali: “assenza”, “attesa”, “autoinganno” e così via:

[…] teniamo presente che ciò con cui abbiamo a che fare, in quella camera in penombra, non è un allontanamento momentaneo, bensì un’assenza definitiva, quella di chi se ne è andato/a per sempre. È un’assenza da intendersi come assoluta mancanza di una presenza: ha lasciato il suo odore, i vestiti appesi agli attaccapanni, lo spazzolino in bagno e il libro aperto sul comodino. C’è tutto tranne lui/lei (p. 40).

E ancora:

Le stanze della nostra vita sono rimaste di colpo vuote per quell’amore che è andato via. La voce rimbomba e sulle pareti ci sono i segni dei quadri di un tempo appesi. Tutto è diventato freddo, anonimo, spoglio. Semplicemente brutto. Ci sediamo un momento – per terra, perché le sedie non ci sono più –, chiudiamo gli occhi e, inspirando molto lentamente, proviamo a ricordare che cosa c’era prima (p. 169).

Carola Barbero propone di affrontare a viso aperto il processo di “elaborazione del lutto”, al fine di acquisire una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie capacità e potenzialità, e al tempo stesso di dotarsi di una strategia di autodifesa per contrastare i fantasmi ossessivi del passato. L’importante, secondo la filosofa torinese, è confrontarsi con la realtà concreta, non con le illusioni o i desideri, frutto della nostra fervida immaginazione, che oltrepassano naturalmente (ma arbitrariamente) l’effettualità di ciò che è stato, verso ciò che, idealmente, sarebbe potuto essere o avremmo voluto fosse stato. Soltanto in questo modo, attraverso un’analisi lucida della situazione oggettiva, il soggetto si sottrae al turbine impetuoso e irrazionale dell’emotività, e riparte da sé, avendo sé stesso come saldo baricentro del proprio percorso esistenziale.

Smetteremo di rifugiarci nella pazzia quando riusciremo finalmente a capire qualcosa, quando proveremo a mettere insieme i pezzi staccati e/o dimenticati della nostra vita passata e di quella presente, quando ci impegneremo nel tentativo di dare un senso alle sofferenze e alle delusioni, quando arriveremo a perdonarci o a mandarci al diavolo. E con un sorriso permetteremo ai nostri occhi e a quelli di chi abbiamo accanto di vedere qualcosa di diverso. Non più i muri che abbiamo costruito un’incomprensione dopo l’altra, ma il sole o le nuvole che ci sono dietro, che profumano di vento o di pioggia, della vita, la nostra (p. 156).

Questa è la strada indicata dalla scrittrice torinese, che fa leva sull’abilità pratica, intesa come phronesis, di non lasciarsi assorbire o travolgere dalle “pene del cuore”, ma di saper gestire, razionalmente il “mal d’amore” e dunque il tumulto violento delle passioni. Nonostante lo tsunami emotivo e il crollo sequenziale di tutte le certezze, l’esistenza può ricominciare da sé per scrivere un nuovo, avvincente capitolo della propria avventura nel mondo. È questa in fondo la virtù: quella di rialzarsi temprati dopo la sconfitta e poi, con passo sereno, riprendere a vivere con leggerezza:

Rimorsi e rimpianti arriveranno certo, come le onde grigie schiumose seguono la tempesta sul mare. E noi saremo lì ad aspettarli, con la mente lucida e fiera di chi sa cosa voglia dire avere fatto un pezzo di strada (p. 176).

addio