Filosofia e psicoanalisi, Le parole e i soggetti

Le nostre ferite sono le nostre genitrici.
(Aldo Carotenuto, 1996)

Nel mondo contemporaneo, ogni aspetto che riguarda l’uomo è dominato dalla tecnica. Ma c’è un aspetto che si sottrae al dominio delle sue procedure omologanti ed è la “soggettività”, la singolarità irripetibile di ciò che ogni uomo è, nel profondo del proprio essere, il suo vissuto. Da un lato siamo immersi in una realtà fortemente pianificata e regolata, dall’altro emerge in maniera chiara e lampante che la tecnica, nonostante tutto il suo “apparato”, nulla può rispetto alla finitezza e alla precarietà della vita, al suo cuore pulsante: la solitudine, il dolore, l’amore, ecc. Di fronte a determinate esperienze o “situazioni-limite”, la tecnica vacilla, letteralmente “non funziona”. Ineludibile risulta pertanto la costante ricerca di un senso, di un perché in grado di giustificare, in qualche modo e provvisoriamente, il nostro “stare al mondo”.

Filosofia e psicoanalisi tentano di rispondere, con la debole arma della riflessione e del pensiero, del silenzio e della parola, a tale impetuosa e impellente esigenza, ed è proprio al rapporto tra le due discipline che è dedicato il bel libro di interviste, scorrevole nella lettura perché coinvolgente e appassionante, Filosofia e psicoanalisi. Le parole e i soggetti, a cura di Davide D’Alessandro (Mimesis, 2020). Il libro si presenta suddiviso in due parti: la prima (Filosofia, il destino del logos) dedicata a conversazioni con autorevoli filosofi e intellettuali italiani, la seconda (Psicoanalisi, architetture psichiche), a interviste con psicanalisti di diversa scuola e orientamento. Inutile dire che tale separazione risulta essere soltanto di carattere formale, perché filosofia e psicanalisi costituiscono un intreccio indissolubile di esperienze ermeneutiche, tese, come ricordava Alberto Zino a fronteggiare “il male” (cfr. A. Zino, Psicanalisi e filosofia. Il male, Edizioni ETS, 2004).

Nella sua Premessa il curatore riconosce, infatti, che “Filosofi e analisti lavorano da laboratori diversi lo stesso materiale: l’uomo” (p. 12). L’uomo, appunto, come essere finito, gettato nella vita e chiamato a realizzare se stesso nel caos di un divenire assurdo. Con parole esemplari, lo ricorda in una delle interviste il filosofo bolognese Carlo Sini: “Decide la vita in noi: ne siamo i portatori, con tutto il peso della responsabilità e del rimorso e la sensazione che ci sia stata fatta una violenza o un’ingiustizia. Ma infine, direbbe Nietzsche, che importa di te? Dì la tua parola e infrangiti in essa” (p. 80). Sulla stessa linea di pensiero anche Salvatore Natoli, teorico dell’etica del finito, secondo il quale: “La vita ha molti nodi. Uno di essi è proprio il dolore. E quando lo provi, ne esci diverso, cambiato, mutato. Ma ci sono i nodi delle scelte, del cosa fare, del cosa decidere, in base agli accidenti dell’esistenza. Per esempio la scelta di un legame, la capacità di costruirlo e di tenerlo nel tempo” (p. 135).

Anche sul versante della psicoanalisi non mancano voci di assoluto rilievo, in grado di gettare luce sulla “perturbante” dimensione umana, caratterizzata dall’inquietudine e dall’angoscia. Tra le più autorevoli, certamente quella di Eugenio Borgna, che riconosce in apertura del suo intervento che “Fare lo psichiatra o la psichiatra significa avventurarsi lungo un cammino che non si conosce e non si conoscerà mai, perché il suo oggetto è la vita interiore di una persona che sta male ed è la sola che conosce quello che sente e quello di cui ha bisogno” (p. 141); e poco dopo, in risposta ad un’altra domanda aggiunge: “[…] il mistero della vita interiore oltrepassa ogni rigido criterio tecnologico” (p. 142). Così pure, sostiene Massimo Recalcati: “Il dolore è un’esperienza di divisione. La psicoanalisi lavora su di un soggetto diviso” (p. 149).

Il filo conduttore che attraversa i vari interventi è dunque la consapevolezza del “limite”, della “fragilità” e della “precarietà” che caratterizza la sfera umana. È una condizione di “disagio” e di “squilibrio” che fa appello alla filosofia e alla psicoanalisi non come rimedio definitivo alla sofferenza, ma in quanto parola che lenisce e allevia, in ogni caso, umanamente consola. Lapidario nella sua disamina è Nicolò Terminio: “Il sapere degli ‘psi’ è sempre una coperta troppo corta rispetto al Reale della clinica e della vita” (p. 167). Perché la vita è eccedenza che irrompe e che sconvolge ogni pensiero e ogni teoria (filosofica o psicoanalitica che essa sia). Pur tuttavia, di fronte all’impetuoso e inarrestabile fluire della vita, di fronte all’insensato scorrere del tempo, che costantemente ferisce e sradica, filosofia e psicoanalisi sono i “luoghi” privilegiati dove la nostra anima può cercare riposo e ritrovare se stessa. Esse non forniscono verità o certezze assolute, ma piuttosto, l’invito a ciascuno di vivere una vita autentica, realizzando le proprie potenzialità.