August Strindberg, Solo

Quando in ogni tuo simile vedrai il nemico mortale, solo allora avrai la certezza che nessuno ti ucciderà o infangherà la tua solitudine.

(Emil Cioran)

Nel racconto introspettivo e psicologico Solo (Ensam), pubblicato a Stoccolma nel 1903, e recentemente ripubblicato in Italia dalla casa editrice Carbonio, nell’impeccabile traduzione di Franco Perrelli, il drammaturgo svedese August Strindberg (1849-1912) descrive dettagliatamente il sentimento della propria solitudine. Dopo dieci anni vissuti in campagna, l’autore, un uomo di mezza età, ritorna nella sua città natale e si confronta con la vita (con i propri ricordi, la condizione presente e le restanti aspettative future). Incontra svogliatamente amici, conoscenti, vicini di casa, concittadini, osserva distaccato il comportamento degli estranei durante le sue passeggiate solitarie. Egli però ha scelto l’isolamento: la solitudine è il luogo più autentico dove realizzare se stesso, la dimora accogliente, che protegge dalle asperità della vita e dalla presenza asfissiante degli altri: gli “intrusi”.

Verrebbe da dire: l’enfer, c’est les autres, ed è proprio questo il filo conduttore che attraversa il breve ma intenso, avvincente e coinvolgente racconto di Strindberg. Il protagonista delinea minuziosamente le proprie impressioni e i propri stati d’animo, al variare delle stagioni e al variare dei contesti in cui si trova. Le occasioni di socialità e di comunicazione sono volontariamente ridotte al minimo, come accade al misantropo Serge Tanneur (Fabrice Luchini) nella commedia francese Alceste à bicyclette di Philippe Le Guay (2012). Anche il personaggio descritto da Strindberg nel racconto di stampo autobiografico e confessionale preferisce restare da solo senza cercare la compagnia di altri. All’ebbrezza delle futili e controproducenti relazioni sociali, il protagonista preferisce la proficua riflessione interiore, la meditazione lucida, attenta, assorta di ciò che accade (fuori) e di ciò che gli accade (dentro):

Questa è infine la solitudine: avvolgersi nella seta dell’anima, farsi crisalide e attendere la metamorfosi, che non può mancare. Si vive intanto delle proprie esperienze e, telepaticamente, si vive la vita altrui. La morte e la resurrezione; una nuova educazione per un nuovo ignoto. Finalmente, possiedi solo te stesso. I pensieri altrui non controllano più i miei; opinioni, capricci altrui non m’angustiano più. Ora l’anima comincia a maturarsi nella riconquistata libertà e si prova un’immensa pace interiore, un piacere sereno, un senso di certezza e di responsabilità (p. 56).

L’autore, dunque, impara a convivere con la propria solitudine. Non è uno spettro che spaventa e da cui vuole fuggire, ma è la dimensione propizia che alimenta con amor fati. La solitudine diventa il sostrato emotivo per conoscere se stessi, ritrovarsi, e approfondire la propria identità. Soltanto nel grembo della solitudine il protagonista trova sollievo e raggiunge quella pace interiore salvifica, minata dalla semplice presenza degli altri. Gli unici compagni di viaggio ammessi nel suo percorso esistenziale sono i classici: Goethe e Balzac, la Bibbia e gli insegnamenti del buddhismo. L’unica valvola di sfogo si rivela essere la scrittura:

Credo che essere solo sia il mio destino e che ciò sia per il mio bene; voglio crederci, altrimenti tutto sarebbe troppo implacabile. Però, talvolta, in solitu­dine la mente si sovraccarica e minaccia di esplodere; per questo bisogna stare in guardia. Cerco allora di bilanciare entrate e uscite; ogni giorno, debbo avere uno sfogo nello scrivere, acquisire novità leggendo (p. 66).

Le stagioni si susseguono secondo il ritmo naturale, la vita scorre lenta. La città muta secondo le stagioni; gli uomini si adattano ai cambiamenti. L’autore scruta le variazioni, le registra, le annota. Da acuto osservatore, analizza la psicologia degli individui e la sua personale condotta. Indipendentemente dal divenire assurdo, l’unica certezza è aggrapparsi alla propria solitudine, come all’unico sostegno certo, per resistere alla vita, il centro di gravità su cui poggiare il nostro effimero nulla:

È di nuovo inverno, il cielo è grigio e la luce viene dal basso, dalla neve candida per terra. La solitudine s’intona bene con la morte apparente della natura, per quanto diventi talvolta troppo pesante. Ho nostalgia degli uomini, ma in solitudine sono diventato troppo delicato, ho l’anima scarnificata e mi sento così viziato dalla mia libertà di dirigere i pensieri e i sentimenti che a malapena posso sopportare il contatto con le altre persone; già, ogni sconosciuto che mi avvicini mi soffoca con la sua temperatura spirituale che sembra invadere la mia (p. 121).