Jean Dubuffet, Piccolo manifesto per gli amatori d’ogni genere

Chi ha detto che ci sono regole, scuole e maestri da seguire nel campo dell’arte? È possibile giungere ad un ideale di bellezza assoluta, universalmente valido? La concezione estetica che si è imposta in Occidente è da considerarsi l’espressione più alta, mai raggiunta nella storia dell’umanità, o piuttosto ogni cultura in una determinata epoca storica, e in un determinato contesto geografico, elabora una propria concezione artistica? Hanno tutte pari dignità o è possibile fare dei raffronti, al fine di pervenire ad una fantomatica classificazione?

Il francese Jean Dubuffet (1901-1985), pittore e scultore, ideatore e teorico dell’Art Brut (arte rozza) ancor prima di dare alle stampe nel 1969 Asphyxiante culture, elabora la propria dinamitarda, esplosiva, insolente, irriverente Weltanschauung estetica, in un meraviglioso scritto del 1946: Prospectus aux amateurs de tout genre, recentemente tradotto in lingua italiana da Alessandra Ruffino per la casa editrice Allemandi. L’edizione italiana, che raccoglie anche alcuni testi inediti, è un piccolo gioiello di luce abbagliante, un tassello imprescindibile, per chi ama la cultura autentica (quella eretica, eterodossa), non allineata alla “cultura” ufficiale, dominante, che pretende sempre di indicare quale sia la strada giusta da seguire per giungere ad una astratta verità universale: “La verità non si lascia circoscrivere, abbracciare per intero con lo sguardo. Se ne possono solo afferrare degli aspetti. E ancora: per lampi” (p.143).

L’anti-idealista Dubuffet non crede, dunque, che possa esistere un ideale di bellezza sovrastorica, eterna, di cui l’Occidente sarebbe, con velleitaria presunzione, l’unica, univoca, verace testimonianza. Secondo l’artista francese, infatti, tutto ciò che è umano cade sotto la scure del tempo, della finitezza, della provvisorietà e della caducità. “Tutto ciò che è umano è mortale” (p. 142): ecco l’assioma inconfutabile e portante, il fulcro nevralgico, attorno a cui si costituisce l’ermeneutica del finito di Dubuffet.

Se è vero ciò, la bellezza è ovunque e in ogni tempo, trasversale ad ogni cultura: “Nelle società semplici e sane, presso i negri d’Africa o d’Oceania ad esempio (almeno fino a quando i marescialli degli zuavi e missionari non arrivano ad abbrutirli) non si fan tanti complimenti come da noi con la pittura o scultura. Qualunque contadinello, a fine giornata, si mette a modellare una statuetta se gliene viene capriccio, senza preoccuparsi di fare prima 10 anni di studi in una scuola di Belle Arti. E bisogna ammettere che il risultato non è così cattivo, dato che tutti i nostri artisti sono pieni di ammirazione per le opere fatte dai negri con tanta inventiva e fantasia” (p. 55).

Dubuffet non è solo un artista innovativo e rivoluzionario (per lo stile insolito, per le tecniche e i materiali utilizzati) nell’ambito della storia dell’arte del Ventesimo secolo ma, ancor di più, un acuto teorico dell’arte, un profondo osservatore ed interprete di questioni filosofiche, psicologiche, antropologiche. Come Lévi-Strauss, Dubuffet riabilita i popoli non civilizzati, le civiltà primitive, non corrotte dall’“asfissiante cultura”, fatta di schemi, concetti, teorie, idee, ma soprattutto pregiudizi. Dubuffet, con Nietzsche, e con spirito dionisiaco, sostiene che non vi sia altra finalità nell’arte se non quella di divertire, emozionare, affascinare, incantare o scandalizzare: “L’arte è fatta solo di ebbrezza e follia” (p. 44); essa “deve sempre un po’ far ridere e un po’ far paura” (p. 62).

L’arte possiede allora un linguaggio proprio, innato, istintivo e a nulla serve frequentare le prestigiose Accademie sparse in giro per il mondo: “Dipingere è come parlare o camminare. Per l’essere umano fare schizzi su qualunque superficie capiti sotto mano, scarabocchiare qualche immagine, è naturale come parlare” (p. 54). L’Occidente ha però trasformato un linguaggio spontaneo e universale, in un sapere specialistico, elitario e settario. È questo l’abominio che macchia, in maniera indelebile, la cosiddetta “civiltà” e che Dubuffet mette a nudo nella sua ricostruzione esegetica.

Come sopperire a ciò? Come salvarci da tutte le forme di cultura colte (filosofia, poesia, musica) che hanno asservito e schiavizzato l’uomo, invece di liberare le sue energie primordiali e vitali? Con la sua scrittura irriverente e ironica, Dubuffet ci insegna che dobbiamo ritornare alla terra, sporcarci le mani, attingere al materiale grezzo, alla fonte pura e oscura della vita, alla linfa germinale, senza voler costruire o ipotizzare altri mondi lontani: “Aspiro a un’arte che sia direttamente connessa alla vita quotidiana, un’arte che prenda avvio da questa vita quotidiana, che sia un’emanazione immediata della nostra vera vita e dei nostri veri umori” (p. 170).