José Manuel Blecua, “Una chiacchierata con Pedro Salinas”

Sarà difficile fare un’intervista? Mi sono posto questa domanda da quando sono arrivato a Middlebury. Perché Pedro Salinas vive proprio qui, in fondo al corridoio, di fronte alla mia stanza. Ci incontriamo spesso durante il giorno, mi piace la sua conversazione acuta e spiritosa e, quando posso, vado persino alle sue lezioni. Ricordo perfettamente le sue prime parole il primo giorno di corso. Invademmo l’aula e, vedendo tanti ascoltatori, disse, dopo aver esaminato l’elenco degli studenti ufficiali: “In questa classe c’è una buona quinta colonna”. E quando Pilar Madariaga gli chiese cosa intendesse, egli rispose: “Quinta colonna è quella tra la quarta e la sesta”. Ricordo anche le sue parole iniziali, quando spiegò i valori umani del Romancero: “La parola romance non significa, signori, quella categoria di romanzi che siamo soliti leggere in questo Paese. Romance è la prima canzone europea cantata negli Stati Uniti. E questa canzone, signori, era una canzone spagnola”. Sì, più di cento volte ho pensato alla possibilità di un’intervista, ma non oso chiedergli se acconsentirà o meno. C’è poi un altro inconveniente: io non sono un giornalista e non ne conosco la tecnica. So come confrontare un paio di manoscritti o edizioni, ma niente più. Cosa posso fare?

D’altra parte, l’idea di porre qualche domanda a un poeta vivente mi sembra sempre più seducente. In fondo, e questo è sorprendente per me che ho passato tanto tempo a leggere poeti del passato, vivo con un poeta. Con un poeta vivente, professore inoltre di letteratura spagnola, che a sua volta fa storia letteraria in tutti i sensi. Che, peraltro, vedo nei suoi aspetti più umani: “Ha visto mio nipote?”, mi chiede. “Dove si è cacciato? Perché sa, Blecua, lui è il vero protagonista della casa. Noi non siamo niente”. Ancora: “Le piacerebbe giocare a scacchi con me?”. “Volentieri, a patto che non alzi una cortina di fumo con il suo sigaro per battermi”. Oppure racconta deliziosi aneddoti su Vegue e Goldoni, su “Azorín” o Valle-Inclán. Il suo repertorio è splendido e la sua grazia, nel raccontarlo, incomunicabile.

Dovevo decidere una volta per tutte e oggi ho deciso. Andando a una conferenza tenuta da Abreu Gómez, gli ho chiesto se avrebbe accettato di rispondere ad alcune domande per i lettori di ÍNSULA, e mi ha risposto di non avere obiezioni. “Venga nella mia stanza domani alle quattro”. Ed eccomi qui, pronto a interrogare un poeta vivente. Non riesco a superare il mio stupore, perché un manoscritto contenente poesie di Argensola mi aspetta ad Harvard, come mi hanno assicurato Jorge Guillén e Amado Alonso, e non avevo mai pensato di invertire le parti. Inoltre, un primo colloquio ha i suoi rischi e io mi trovo nella stessa situazione di qualsiasi principiante. Decido. Esco dalla mia camera, attraverso il corridoio e busso alla porta. Entro.

– Sono pronto a fare il giornalista.

– Bene. Si sieda e chieda. Può iniziare quando vuole.

– La ringrazio molto. Mi permetta di usare la sua macchina da scrivere, poiché scrivo a mano molto lentamente. E mi perdoni se le domande le sembreranno impertinenti. Si tratta di una mancanza di abitudine. Anche se non so dove ho letto che le domande impertinenti sono quelle più interessanti.

Così inizio:

Cosa hanno significato per lei e per il suo lavoro questi dodici anni di assenza dalla Patria?

Hanno significato, innanzitutto, la mancanza della Spagna, la sua lingua viva, ad eccezione del periodo trascorso in America Ispanica, dei miei amici, dei compagni di generazione e del pubblico. In altre parole, la Spagna come realtà che non potrà mai essere compensata da nulla. Ho avuto la fortuna di potermi dedicare all’insegnamento della letteratura spagnola, che mi ha permesso di essere in costante comunicazione con le grandi creazioni spagnole, e ho concentrato tutto il mio lavoro e la mia ansia e la mia nostalgia della Spagna in quelle lezioni. Per quanto riguarda le spese, ho beneficiato molto della liberalità con cui le università americane integrano nelle loro facoltà professori stranieri con posizioni analoghe a quelle del nostro Paese. Alla John Hopkins University, nella Scuola di Studi Superiori, insegno Letteratura spagnola, nel Dipartimento di Lingue Romanze, insieme a docenti di filologia romanza, come Leo Spitzer, o della storiografia del teatro francese, come H. C. Lancaster. Le tre grandi lingue romanze convivono in questo ambiente accademico in pace e armonia. La mia soddisfazione è che i miei corsi non hanno meno studenti iscritti di quelli di altre lingue. Inoltre, ho imparato molto vivendo negli Stati Uniti. Il suo stile di vita, così diverso dal nostro; l’imponente vastità e grandezza numerica con cui tutto si offre; l’impareggiabile campo di osservazione che offre a chi si interessa di sociologia della letteratura, in quel gioco che può essere così benefico o così letale per la letteratura, di azioni e reazioni tra l’autore e le forze sociali ed economiche che lo circondano. Per il mio lavoro intellettuale ho tratto grande beneficio dall’uso delle biblioteche americane, che sono così ricche di collezioni moderne e che forniscono così tanti servizi allo studioso. D’altra parte, la vita negli Stati Uniti, che all’estero può sembrare rumorosa e frenetica, ma che invece, se si vuole, è tranquilla e raccolta, mi ha lasciato molti momenti di ozio, che ho colmato scrivendo e leggendo. I miei viaggi attraverso l’America Ispanica mi hanno aperto gli occhi sull’imponente realtà di quel mondo. Da quando ho visto il Messico per la prima volta, mi sono convinto che uno spagnolo che non conosce i Paesi di lingua spagnola in America è un provinciale e non è pienamente consapevole di ciò che rappresenta l’ispanico. Dai primi monumenti di Santo Domingo, superbo inizio di espressione architettonica, ai templi e ai palazzi di Messico, Ecuador, Colombia e Perù, si percepisce un modo di essere vecchio e nuovo allo stesso tempo che accresce le risonanze spirituali dell’ispanico. In tutti questi Paesi, inoltre, ho trovato colleghi scrittori cordiali e spiriti molto raffinati.

Le mancano tutti i suoi libri e i documenti?

Sì, e anche cose più preziose, come i ricordi materiali di famiglia.

Vuole dirmi quali libri avrebbe voluto conservare?

Per me, qualsiasi libro, in un’edizione leggibile, è lo stesso. Non sono un bibliofilo. Tornando ora a ricordare le cose più preziose, ricordo il manoscritto di Teresa, di Unamuno, che Don Miguel mi regalò nel 1935; una copia delle poesie di Antonio Machado con una quartina che il poeta mi scrisse; un’altra di Juan Ramón Jiménez, Jardines lejanos, dedicata prima a Emilio Salas e vent’anni dopo a me – due preziosi esemplari della scrittura del poeta – e i libri di Federico Garcia Lorca con disegni a colori. Anche una copia del Figaro dedicata da Larra al conte di Campoalange, che non vide mai perché morì in guerra. Questa copia è rimasta in possesso della famiglia di Larra.

Quali sono i libri che legge con più piacere adesso?

Sono un lettore generalmente interessato. Prevalentemente non leggo cose nuove; cerco di colmare le molte lacune della mia formazione intellettuale. Soprattutto, rileggo molto. Non ho mai letto con più piacere di adesso alcuni classici spagnoli, per esempio il Don Chisciotte, o, in cerca di un assaggio della lingua, le opere di Bernardino de Sahagún o di padre Sigüenza. Per quanto riguarda i poeti, tra i classici ho letto molto Lope de Vega e Quevedo. Naturalmente ho letto molta letteratura americana e francese. La mia conoscenza più approfondita della lingua inglese mi ha fatto rileggere Shakespeare e i metafisici. Anche la poesia italiana da Cavalcanti in poi mi ha riportato all’amore per la lettura.

Quali letture o libri hanno lasciato il segno più grande nel suo spirito?

È molto difficile rispondere, perché sarebbe come riscrivere la storia fedele della mia vita di lettore. Non ho memoria, né voglio avere ricordi. Come faccio a dire, ad esempio – riferendomi solo ai moderni – che certi poeti francesi, da Baudelaire a Valéry, e certi spagnoli, come Unamuno, Ortega y Gasset, Juan Ramón Jiménez, Antonio Machado, sono per me realtà indimenticabili, senza affiancare ad essi le opere di alcuni compagni della mia generazione, come Guillén e García Lorca?

Quale dei suoi libri la soddisfa di più?

Non posso risponderle, perché non c’è nessun mio libro che mi soddisfi pienamente, per me scrivere è sempre un fallimento. L’aver pubblicato diversi libri non mi ha dato alcuna certezza sul valore del mio lavoro.

Vuole parlarmi delle opere più importanti apparse al di fuori dalla Spagna sul suo lavoro?

Gli studi di Ángel del Río e L. Spitzer, pubblicati qui negli Stati Uniti nella Revista Hispánica Moderna della Columbia University; un altro dello stesso Spitzer a Buenos Aires, e uno molto ampio di Juan Garganta nella Revista de Indias, a Bogotá. Ultimamente uno studio sul mio lavoro di critico è stato pubblicato in esclusiva sul Número di Montevideo, dal suo direttore Rodríguez Monegal. Sono stati pubblicati diversi studi più brevi. Sono stati pubblicati anche quattro volumi di traduzioni poetiche, a cura di Eleanor Turnbull, che lei conosce, e un volume di critica, Reality and poetry, tradotto da Edith Helman.

Dato che stiamo parlando di critica e che lei ha pubblicato diversi libri, può dirmi quale dovrebbe essere la posizione del critico nei confronti di una poesia?

Per me, la migliore missione della critica è quella di rivelare o arricchire le potenzialità poetiche che esistono in un’opera. Esistono molte forme perfette o stravaganti di critica. Il mondo letterario di oggi è pieno di pseudo-critiche basate sull’erudizione condivisa, sul vago storicismo o sul formalismo intellettualistico. L’erudizione, la storia, la morfologia possono illuminare certi approcci a una poesia. Non li sottovaluto in alcun modo, nonostante l’uso grottesco che spesso se ne fa in ambito accademico o universitario. Come professore di letteratura per mestiere e critico per hobby, difendo sempre il lettore. Dai trampoli della pedanteria professionale si dimentica molto facilmente che la poesia è stata scritta per essere letta e vissuta da un lettore. Questo rapporto, quindi, è sacro e il critico deve intervenire con la massima delicatezza. La funzione del critico è quella di avvicinare il poeta al lettore, non di arroccarsi su di lui e usarlo come sgabello per la propria vanagloria. Naturalmente, è legittimo esercizio intellettuale della letteratura. Tutti abbiamo il diritto di prendere una poesia di Donne o di Petrarca e di considerarla un punto di partenza per un capolavoro o meno. Tale modo di scrivere, molto legittimo, ha prodotto pagine ammirevoli, ma non è propriamente critica. Il pericolo maggiore per la letteratura risiede nelle schiere di persone che, per guadagnarsi da vivere, senza sensibilità o amore per la poesia, si trovano nel triste obbligo, soprattutto per il pubblico, di scrivere, orrore di ogni spirito, sulle grandi creazioni dello spirito. Non credo sia troppo azzardato pensare che l’ottanta per cento di ciò che viene stampato oggi da professionisti stipendiati nello studio della letteratura sia lettera morta, semplicemente perché non è nato dall’amore, ma dall’applicazione calcolatrice.

Visto che stiamo parlando di critica letteraria, vuole darmi la sua opinione sull’odierna critica negli Stati Uniti, così poco conosciuta in Spagna?

Anche se fuori dagli Stati Uniti si parla soprattutto di romanzo, credo che la poesia e la critica letteraria siano attività di prim’ordine in questo Paese. Negli ultimi vent’anni è emerso un gruppo di critici, molti dei quali poeti o letterati, come Spender, Auden, Crowe Ransom, Allen Tate, Shapiro, Warren e altri, che da riviste minoritarie come Poetry, The Kenyon Review, The Partisan Review, The Hudson Review difendono i più alti standard di creazione letteraria contro l’enorme massa di letteratura imborghesita e commerciale. Sono piccoli gruppi di eroi intellettuali, degni della massima ammirazione, perché spesso incontrano l’ostilità non solo del pubblico volgare, ma anche della mediocrità. L’insieme dei loro concetti critici è quello che viene chiamato Nuovo Criticismo. Come fatto curioso dell’interesse per la poesia, la Biblioteca del Congresso di Washington sta costruendo una magnifica collezione di antologie poetiche lette dai propri autori, che senza dubbio costituirà il più ricco repertorio del suo genere. Non solo autori di lingua inglese, ma anche poeti stranieri, come Juan Ramón Jiménez, Gerardo Diego, Aleixandre, D. Alonso e altri tra gli spagnoli. Hanno anche favorito me, invitandomi a leggere la mia antologia. D’altra parte, all’Università di Harvard c’è una sala di poesia molto interessante, in cui non ci sono altro che libri di poesie e di critica poetica. La cosa più curiosa sono le cinque apparecchiature grammofoniche originali attraverso cui gli studenti possono ascoltare alcune delle centinaia di dischi di poesia drammatica o lirica conservati nella stanza.

In questi giorni ci ha letto diverse commedie e so che ora sta scrivendo romanzi, vuole dirmi a cosa è dovuto questo cambiamento di attività letteraria?

Potrei pormi io stesso questa domanda. Comincio col dire che non è dovuto a un tentativo deliberato di testare sperimentalmente la coltivazione di tutti i generi. Al contrario, non ho alcuna simpatia per questo “complesso goethiano” di tanti scrittori moderni di esercitare la propria capacità creativa in tutte le direzioni, come una sorta di prova di sufficienza o di potere. Non potrei rispondere in modo più onesto che dicendo semplicemente che un giorno mi è venuto in mente di scrivere delle opere teatrali e poi dei racconti, e ho pensato di dover obbedire a questo desiderio, che mi è venuto senza sapere come, di teatro e di narrazione. Sembra una follia – o forse sì – iniziare a scrivere teatro in un Paese di lingua straniera, dove non c’è alcuna possibilità che venga rappresentato. Mi trovo quindi nella situazione unica di un nuovo autore cinquantenne che non riesce a trovare uno sbocco per il suo lavoro. Per quanto riguarda la narrativa, una di esse, la più lunga che ho scritto, intitolata La bomba incredibile, mi è stata imposta dalla situazione angosciosa e costante dell’attuale momento storico.

Ha trovato molte differenze tra la creazione poetica e quella drammatica e romanzesca?

La differenza principale è che la poesia è più facile da comprendere nel suo insieme rispetto alla narrativa o alla commedia. La poesia si ha davanti nel suo sistema di forze, di azioni o reazioni, di parole e versi, ed è presente come un tutto. Invece, è più difficile padroneggiare lo sviluppo in lunghezza del romanzo o dell’opera teatrale.

Questo lavoro implica l’abbandono della poetica?

No. A meno che lei non mi abbandoni, e non vorrei che lo facesse. Ho un piccolo volume di poesie non pubblicato. E anche molti appunti su cui non vedo l’ora di tornare.

Ha avuto modo di leggere la poesia spagnola attuale?

Non quanto avrei voluto. Ho seguito l’opera, ogni volta più ricca e densa, di Vicente Aleixandre, quella di Dámaso Alonso nei suoi potenti Hijos de la ira, e quella di Gerardo Diego, tra i più anziani. Ciò che Rosales, Panero e Vivanco hanno iniziato quando li ho conosciuti è sbocciato meravigliosamente. Dei più giovani, non credo di conoscere l’intero panorama della poesia recente. Mi piace molto il lavoro di José María Valverde, nel quale vedo, anche nel suo lavoro critico, un tono di serietà, di alta aspirazione, vissuto con modestia, osservabile anche negli altri giovani che mi interessano. Mi sembra di scorgere un gruppo che prende risolutamente le distanze dalla frivolezza retorica, dall’arrivismo, dal mercantilismo, dalla faciloneria giornalistica, e che cerca, come quella schiera di loro immediati anziani, da Unamuno ad Aleixandre e Dámaso Alonso, risposte faccia a faccia ai problemi invariabili dell’uomo e del suo mondo. È qui che vedo la più grande speranza. Conosco alcuni libri di poesia di R. Morales, di Bousoño, di I. M. Gil, di Muñoz Rojas, tutti di chiara autenticità poetica. Sicuramente altri mi sfuggono, perché la comunicazione non è così completa come vorrei. Dico questo perché l’omissione di nomi non significa in molti casi mancanza di apprezzamento.

Un’ultima domanda: vuole dirmi perché il suo ultimo libro, “El Defensor”, ha avuto una diffusione così scarsa?

Non so spiegare cosa sia successo con El Defensor. L’Università Nazionale della Colombia mi ha fatto il favore di pubblicarlo, ma per non so quali motivi non è circolato quasi per niente. È una raccolta di saggi in cui voglio difendere alcune forme tradizionali di cultura spirituale, come la corrispondenza epistolare, la lettura, le minoranze letterarie, dagli attacchi che stanno subendo dalla marea di volgarità, confusione e superficialità, causata dalle tendenze sociali e dal presunto progresso tecnico.

– Vuole chiedermi qualcos’altro? Perché, anche se non l’ha sentito, il campanello della sala da pranzo è già suonato.

No, niente di più, e grazie mille.

Fonte: José Manuel Blecua, «Una charla con Pedro Salinas», Ínsula: revista bibliográfica de ciencias y letras, núm. 70 (octubre, 1951), pp. 2, 3 y 6. Ripubblicata in Ínsula: revista de letras y ciencias humanas, núms. 499-500 (junio-agosto, 1988), p. 18.

Traduzione italiana di Antonio Di Gennaro. Revisione di Raffaella Farina.

“Al culmine dell’alba”. La psicologia dell’amore in Pedro Salinas

Il sogno è una seconda vita[1].

Il sogno non si oppone al reale: il reale contiene il sogno[2].

La voce a te dovuta (dicembre 1933), Ragioni d’amore (giugno 1936), Lungo lamento (composto tra il 1936 e il 1939, ma pubblicato postumo) costituiscono la trilogia delle poesie d’amore di Pedro Salinas, scrittore spagnolo, tra i maggiori del Ventesimo secolo. C’è un elemento che accomuna queste tre opere, al di là della straordinaria bellezza dei versi: l’utilizzo, trasversalmente reiterato, del pronome personale “tu”. Manca sempre un nome, manca qualsiasi riferimento ad una singola persona concreta e viene invece adottato continuamente un generico “tu”. Quest’aspetto insolito ha portato alcuni critici di Salinas a congetturare le più fantasiose ipotesi interpretative. In particolar modo, inizialmente, Leo Spitzer ipotizza, in maniera assolutamente fuorviata, che la donna sia solo un “fenomeno della coscienza” e parla quindi di “concettualismo interiore”[3], mentre Ángel del Río sostiene che “La poesia di Salinas è fatta soprattutto di sottigliezze psicologiche”[4]. In altre parole, l’amore poetato da Salinas sarebbe un amore mistico, ideale, platonico, astratto, senza alcun contatto con il mondo reale, con l’universo delle passioni, della carne, del desiderio, della follia, vale a dire con l’Eros.

In realtà, è lo stesso Salinas a creare le condizioni di questo programmato “sviamento”. Leggiamo a titolo di esempio una poesia tratta da La voce a te dovuta, opera con cui ha inizio il dialogo interiore di un’anima con sé, che si volge e si rivolge ad un’altra anima. È un soliloquio intimo e ininterrotto, è la descrizione, individuale e universale, di ciò che accade all’io, quando è sentitamente e sentimentalmente coinvolto, avvinto da una forza inarrestabile come l’amore, trascinato dal turbine impetuoso delle passioni. Facciamo riferimento alla poesia XIV:

Per vivere non voglio

isole, palazzi, torri.

Che altissima allegria:

vivere nei pronomi!

Getta via i vestiti,

i connotati, i ritratti;

non ti voglio così,

travestita da altra,

figlia sempre di qualcosa.

Ti voglio libera, pura,

irriducibile: tu.

Quando ti chiamerò, so bene,

fra tutte le genti

del mondo,

solo tu sarai tu.

E quando mi chiederai

chi è che ti chiama,

che ti vuole sua,

sotterrerò i nomi,

le pergamene, la storia.

Comincerò a distruggere quanto

m’hanno gettato addosso

da prima ancora ch’io nascessi.

E ritornato ormai

all’eterno anonimato

del nudo, della pietra, del mondo,

ti dirò:

«Io ti voglio, sono io»[5].

A dire il vero, la poetica di Salinas non trascende la dimensione empirica, fattuale, carnale, pur essendo di un’accecante intensità trascendentale. Essa rappresenta l’apice dell’ineffabile dire amoroso, il “culmine dell’alba”[6], parafrasando lo stesso Salinas. Nei versi del poeta madrileno è possibile scorgere l’Assoluto, la grazia, Dio, il divino, ma questa dimensione “ultraterrena” e “metafisica” del linguaggio lirico, che tenta di dire l’inesprimibile, attingendo inconsciamente al sottosuolo onirico, non ha a che fare con l’ulteriorità, ma con l’immanenza, “umana, troppo umana” del sentimento amoroso, che lacera l’interiorità, che strugge e toglie il fiato. Qui in gioco, nel gioco “demoniaco” della creazione dei versi, non vi sono idee o concetti, ma più semplicemente l’improvviso e inspiegabile palpito del cuore. Dietro la fraseologia poetica di Salinas, vi è la fisiologia, la psicologia di un amore vissuto e patito, in carne ed ossa, nel profondo dell’anima. Leggiamo la poesia V, sempre da La voce a te dovuta:

È stato, accadde, è vero.

Fu in un giorno, fu una data

che segna il tempo al tempo.

Fu in un luogo che io vedo.

I suoi piedi toccavano il suolo

questo stesso che tutti tocchiamo.

Il suo vestito

era simile ad altri

che indossano altre donne.

Il suo orologio

sfogliava calendari,

senza scordare un’ora:

come contano gli altri.

E quello che lei mi disse

fu in una lingua del mondo,

con grammatica e storia.

Così vero

che sembrava menzogna.

No.

Devo viverlo dentro,

me lo devo sognare.

Togliere il colore, il numero,

il respiro tutto fuoco,

con cui mi bruciò nel dirmelo.

Mutare tutto in forse,

in mero caso, sognandolo.

Così, quando vorrà smentire

ciò che mi disse allora,

non mi morderà il dolore

d’una felicità perduta

che io tenni fra le braccia,

come si tiene un corpo.

Crederò di aver sognato.

Che tutte quelle cose, così vere,

non ebbero corpo, né nome.

Che perdo

un’ombra, un sogno ancora[7].

In queste righe vi è un’esplicita e, al tempo stesso, enigmatica ammissione di un dato di fatto, dello status quo: “È stato, accadde, è vero”. Salinas riconosce che è tutto “vero” ciò di cui parla, è la verità, non è una finzione. Si riferisce ad una donna concreta: ai suoi “piedi”, al suo “vestito”. Fa riferimento al suo “orologio”, che dà inizio ad un nuovo corso del proprio tempo interiore, ad una nuova età psichica, ad una nuova era nello sviluppo della sua personalità. Ma non svela il nome, non rivela alcuna identità precisa. Oscilla tra la realtà apodittica e il mistero del sogno, finge, mette in scena, inscena, una mistificazione del retroscena, c’è sempre quest’ambivalenza di un rebus che non viene mai risolto, ma che rinvia ad un’Ombra, alla “menzogna”, quasi fosse tutto frutto della fervida immaginazione del poeta, l’effimero e aleatorio prodotto di un sogno sognato. Ma chi c’è realmente dietro il “tu” invisibile e taciuto? Qual è il nome proprio, sotteso al pronome “tu”? Esiste un volto, una figura, uno sguardo, a cui la “La voce a te dovuta” è dovuta? In altre parole: chi è la persona a cui si riferisce Salinas nell’intera raccolta e nell’intera trilogia amorosa?

Grazie al prezioso lavoro del Prof. Enric Bou, autorevole ispanista, abbiamo accesso a parte della corrispondenza con la donna che ha ispirato Salinas, la “Musa ispiratrice”, la femme fatale che ha inavvertitamente ammaliato, sedotto e sconvolto la vita dello scrittore spagnolo, sino alla morte: l’americana Katherine Whitmore, donna bella, affascinante, trentacinquenne all’epoca del loro incontro, avvenuto nell’estate del 1932. Salinas aveva quarant’anni, era sposato con Margarita Bonmatí Botella, di sette anni più adulta, e aveva due figli: Jaime e Solita. Lavora al Centro di Studi Storici, era professore presso l’Università di Madrid ed è uno dei fondatori dell’Università Internazionale di Santander. Katherine, invece, insegna allo Smith College, e si reca a Madrid per seguire un corso di letteratura spagnola, tenuto proprio da Salinas. Sin dalle prime lezioni è “colpo di fulmine”, come si evince da una delle primissime lettere della corrispondenza: “Nessuno ha notato niente, nessuno si è accorto di nulla. Ma quella sera, uscendo dall’aula, il mondo portava con sé una nuova illusione, un desiderio ulteriore. Ti assicuro che pensavo non l’avresti mai saputo. Ho pensato che saresti passata al mio fianco senza che io potessi avvicinarmi alla tua altezza divina, lontana e superiore, come gli dèi e i desideri più alti. ‘Lo saprà mai?’, mi sono chiesto tra me e me” (lettera del 2 agosto 1932)[8].

L’incontro avviene all’insegna di un bagliore accecante, di una “luce improvvisa”[9], che stravolge il percorso esistenziale di Salinas. Nulla sarà più come prima: i giorni, le notti, gli impegni accademici, la famiglia. Tutto passa in secondo piano, tutto diviene secondario, talvolta irrilevante. Infatti, grazie all’amore, corrisposto da Katherine, Salinas percepisce un sentimento di unità totale, di completa integrazione col mondo. Non si sente isolato, estraneo, straniero, estraniato, ma accolto tra le braccia della persona amata, riconosciuto dallo sguardo di lei, per dirla con Sartre, “giustificato di esistere”[10]. È ebbro di sé perché il suo ha valore incondizionato agli occhi dell’altro. La relazione con la giovane americana diviene, pertanto, l’intero suo mondo: un mondo auto sussistente, in virtù del quale egli percepisce, come suggerisce la poesia XLV, una sensazione di costante “elevazione”, “ascensione”, “ascesa”:

La materia non pesa.

Il tuo corpo ed il mio,

uniti, non sentono mai

schiavitù, sentono ali.

I baci che tu mi dai

sono sempre redenzioni:

tu baci verso l’alto,

e qualcosa di me porti a luce,

costretto prima

nel fondo oscuro.

Lo salvi, lo guardiamo

per vedere come ascende,

e vola, per l’impulso che gli dai,

verso il suo paradiso

dove ci aspetta.

No, non opprime la tua carne

e neppure la terra che calpesti

né il mio corpo che stringi.

Sento, quando mi abbracci,

che ho tenuto contro il petto

un lieve palpitare,

vicinissimo, di stella,

che viene da un’altra vita.

Il mondo materiale

nasce quando tu parti.

E sull’anima sento

quest’oppressione enorme

di ombre che hai lasciato,

di parole, senza labbra,

scritte su fogli di carta.

Restituito alla legge

del metallo, della roccia,

della carne. La tua forma

corporea,

il tuo dolce peso rosa,

è ciò che mi rendeva

il mondo più lieve.

Ma ciò che non sopporto

e che mi schiaccia,

chiamandomi alla terra,

senza te per difendermi,

è la distanza,

è il vuoto del tuo corpo.

Sì, tu mai, tu mai:

il tuo ricordo, è materia[11].

L’amore tra Salinas e Katherine Whitmore è in ogni caso un amore “in sospeso”, “in bilico”, vissuto tra le difficoltà oggettive della distanza geografica e la consapevolezza di essere espressione di una relazione extraconiugale. Col passare del tempo, l’entusiasmo iniziale dell’innamoramento è messo a dura prova dalla “situazione-limite” del vincolo matrimoniale, cui è legato Salinas. Katherine reclama maggiori certezze, vorrebbe un salto di qualità nella relazione, e soprattutto il rapporto subisce un’inclinazione netta a seguito del tentato suicidio, il 27 febbraio 1935, di Margarita, moglie del poeta spagnolo. Sia nelle lettere, che nelle poesie, a partire soprattutto dalla silloge Ragioni d’amore, si avverte la comparsa di una velata sfumatura di grigio, nel cielo limpido e azzurro dell’amore. Progressivamente, si va insinuando il tarlo minaccioso di una possibile fine, di una separazione, di un abbandono, di un addio, di un “no” che segue a un “sì”, di un doloroso e ineluttabile ritorno al mondo cupo della spettrale solitudine.

Questo processo inevitabile, la traiettoria di questa parabola discendente, è perfettamente visibile, se leggiamo le poesie della raccolta postuma Lungo lamento, e se al contempo prendiamo in considerazione la seconda parte delle lettere. Le poesie e le epistole vanno di pari passo, rappresentano il doppio binario di una medesima psicologia dell’amore, si chiariscono, si integrano e si completano a vicenda. Le lettere stesse presentano un tono poetico: sono poesie scritte in forma di prosa epistolare. Se agli esordi prevale il tema dell’“ascesa”, della “salita”, dell’“apertura”, ora prevale invece quello dell’“inverno”, del “vuoto” e della “caduta”.

La fine di un amore provoca, come sempre, il “lutto” della coscienza, il venir meno del mondo, sul quale avevamo fondato la nostra relazione con il mondo. Salinas avverte il trauma, la ferita, il taglio, e i suoi testi rispecchiano in pieno la modificazione dei sentimenti, la lacerazione nel vissuto, la perdita di coordinate vitali, lo spaesamento, il freddo e il buio dell’esistenza. “Dammi luce e sarò chiaro / non ti stufi la mia pena / di quando tu non mi illumini”[12], sembra essere l’implorazione finale, la supplica conclusiva contenuta in Lungo lamento, la presa di coscienza di un amore perduto, giunto ormai irrimediabilmente al capolino. Emblematica in tal senso la poesia 50, posta a chiusura di Lungo lamento, che rappresenta il grido malinconico e struggente per ciò che avrebbe potuto essere, e che purtroppo, per ironia della sorte avversa, non è più stato:

Non rifiutare i sogni in quanto sogni.

Tutti i sogni possono

esser realtà, se il sogno non finisce.

La realtà è un sogno. Se sogniamo

che la pietra è la pietra, quello è la pietra.

A correre nei fiumi non è un’acqua,

ma è un sognare, l’acqua, cristallino.

Maschera i propri sogni

la realtà e dice:

«Io sono il sole, i cieli, l’amore».

Mai però se ne va, mai si allontana,

se fingiamo che sia più d’un sogno.

E viviamo sognandola. Sognare

è quel modo che l’anima

ha per non farsi mai sfuggire

quel che le sfuggirebbe se smettessimo

di sognare che è vero quello che non esiste.

Solo muore

un amore se non è più sognato

fatto materia e che si cerca in terra[13].

Il sogno, allora, è la chiave di accesso privilegiata per comprendere la complessa e articolata psicologia amorosa di Salinas, che si esplica naturalmente, istintivamente, pulsionalmente, attraverso il dire poetico e la scrittura epistolare. In una lettera del 12 febbraio 1934, quando la relazione con Katherine è ancora solida e idilliaca, Salinas, in treno, di ritorno da Malaga, si riferisce al sogno, con queste parole: “Un sogno, che non ha di chi sognare, è solo un sogno, incompleto, la metà della vita. Ma quando qualcuno ci ama, tanto da farci sognare in esso, quello diventa completo. Tu mi hai amato, affinché io sognassi in te, perché tu sognassi in me. Ed ecco perché oggi, questo pomeriggio, il mio sogno dell’anima è stato perfetto. Grazie, vita, per aver lasciato che ti sognassi e mi sognassi, e sognassi la vita in noi fatta carne, sognata da un uomo e una donna che si amano, sognandosi”[14].

L’amore per Salinas è dunque un sogno che non finisce mai: un sogno perenne, perpetuo, immortale, imperituro, che si nutre avidamente dell’immaginazione e del desiderio. Se corrisposto, è un sogno “reale”, che dona beatitudine ed ebbrezza nell’anima, la pienezza della vita, nella relazione con l’altro, nella fusione miracolosa di due individualità. Se non è corrisposto, o non è più corrisposto, è un sogno “irreale”, “immaginifico”, che la coscienza scissa, lesionata, frantumata, s’inventa per non sprofondare nella palude della propria solipsistica ipseità, della propria glaciale iità, ossia è l’ultimo appiglio, al quale disperatamente aggrapparsi, per lenire, per quel poco che vale, la ferita lancinante di un’aberrante solitudine esistenziale e simulare, a sé e al mondo, di non essere ancora morti, di possedere ancora il privilegio atavico delle lacrime, trattenute a stento negli occhi.


[1] G. de Nerval, Il sogno e la vita, a cura di F. Calamandrei, Einaudi, Torino 1943, p. 101.

[2] J. Bousquet, Le Bréviaire bleu, Rougerie, Mortemart 1977, p. 15.

[3] L. Spitzer, El conceptismo interior de Pedro Salinas, Revista Hispánica Moderna, Año 7, No. 1/2 (Jan. – Apr., 1941), pp. 33-69.

[4] A. Del Río, Historia de la literatura española. Desde 1700 hasta nuestros días, Barcelona 1948, vol. II, p. 502.

[5] P. Salinas, La voce a te dovuta, a cura di E. Scoles, Einaudi, Torino 1979, XIV, p. 49.

[6] Id., Ragioni d’amore, a cura di V. Nardoni, Passigli Editori, Firenze 2006, p. 27, v. 18.

[7] Id., La voce a te dovuta, cit., V, pp. 15 e 17.

[8] Id., Cartas a Katherine Whitmore (1932-1947), Edición y prólogo de E. Bou, Tusquets Editores, Barcelona 2002, p. 41. Per un inquadramento della relazione tra Pedro Salinas e Katherine Whitmore si rinvia a: J. Cross Newman, Pedro Salinas y su circunstancia. Biografía, traduccion de R. Cifuentes, Páginas de Espuma, Madrid 2004, pp. 223-249; Ruth Katz Crispin, “¡Qué verdad revelada!”: The Poet and the Absent Beloved of Pedro Salinas’ “La voz a ti debida”, “Razón de amor” and “Largo lamento”, Revista Hispánica Moderna, Jun., 2001, Año 54, No. 1 (Jun., 2001), University of Pennsylvania Press, pp. 108-125; C.E. Peragón López, Algunas notas sobre la proyección literaria en el epistolario de Pedro Salinas a Katherine Whitmore, Revista de Literatura, LXVI, 132 (2004), pp. 465-484; Montserrat Escartín Gual, Pedro Salinas, una vida de novela, Ediciones Cátedra, Madrid 2019, pp. 123-226.

[9] P. Salinas, La voce a te dovuta, cit., XII, p. 41, v. 3.

[10] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it. di G. del Bo, il Saggiatore, Milano 1997, p. 421.

[11] P. Salinas, La voce a te dovuta, cit., XLV, pp. 143 e 145.

[12] Id., Il corpo, favoloso. Lungo lamento, a cura di V. Nardoni, Passigli Editori, Firenze 2015, p. 83.

[13] Ivi, p. 187.

[14] Id., Cartas a Katherine Whitmore (1932-1947), cit., p. 245.

Joë Bousquet, Il gioco della vita

Avere presso di sé degli amici è l’augurio di conoscere degli uomini
a cui si possa mostrare il proprio cuore senza pericolo.

(J. Bousquet)

Jean Dubuffet (1901-1985) è considerato oggi uno dei maggiori pittori del XX secolo, iniziatore e teorico dell’Art Brut. La sua prima, sfrontata, mostra personale, di dipinti e disegni stravaganti, si svolse dal 20 ottobre al 18 novembre 1944 presso la Galerie René Drouin di Parigi. Grazie a Jean Paulhan, il “playboy de l’art moderne” (André Pieyre de Mandiargues), che aveva conosciuto nel gennaio dello stesso anno, incontrerà a Carcassonne Joë Bousquet, con il quale stringerà un rapporto di intensa amicizia, come testimonia il volume Il gioco della vita, edito dalla casa editrice Mimesis ed esemplarmente curato da Adriano Marchetti.

Sin dagli esordi artistici, Dubuffet è attratto da coloro che vivono ai margini della società e che sono privi di formazione culturale. Egli, pertanto, propone una visione trasgressiva, “anticulturale” dell’arte, tesa a valorizzare le manifestazioni grafiche dei popoli primitivi e la produzione istintiva e spontanea degli artisti di strada, dei graffitisti, dei bambini e dei pazzi.

Bousquet resta affascinato da tale inusuale linguaggio figurativo, estraneo ai circuiti dell’arte tradizionale. Il poeta di Carcassonne, in controtendenza rispetto all’opinione degli specialisti e dei critici di professione, dell’epoca, riconosce immediatamente in Dubuffet un artista originale, geniale, mosso da una pressante e autentica tensione emotiva, da una naturale creatività febbrile: “La pittura, grazie a lei, rompe con l’attrazione. Si lancia – mandando in frantumi una vetrata” (p. 52). E ancora: “Lei è il più grande pittore di questo tempo. […] Ogni colore è un’espressione minerale dell’oscurità sotterranea. Un solo sguardo su una tela di Dubuffet fornisce la prova che il pittore ha insanguinato le proprie dita su colori che lasciava allo stato vergine di minerali, che si rifiutava di decalcare” (p. 99).

Intimamente afflitto per essere “un individuo fuori-natura e condannato a fare l’esperienza d’una assurdità biologica” (p. 82), Bousquet si rifugia nella seducente arte ancestrale di Dubuffet, rinvenendo in essa conforto ed evasione, ma soprattutto spunti fecondi per la propria scrittura introspettiva e onirica. Anzi, il sogno recondito di Bousquet, a partire dalla metà degli anni Quaranta, è quello di “scrivere come dipinge Jean Dubuffet”, di raccontare attraverso le parole quel che Dubuffet rappresenta attraverso la propria oltraggiosa arte visiva: “Perché […] è stato scelto lei per costringermi a non vedere altro che immagini, segni da decifrare nei fatti che mi avvolgono e mi rendono spesso la vita così greve, così greve?” (p. 55).

Nella sua tarda produzione letteraria, il poeta di Carcassonne sposa quindi appieno lo “stile Dubuffet”: “Il bambino che disegna riserva alle sue figure i caratteri del segno. A malapena esce da sé: teme che una rappresentazione giunga, da fuori, a contrastare quella che la sua immaginazione può formare: come se gli sembrasse che i colori scelti non potrebbero apparire in due luoghi alla volta. Scorgo in me questa intuizione di bambino, di primitivo, di folle: nulla di ciò che si manifesta nel mondo sensibile non può essere ritenuto come affatto inesistente. Ogni colore è un certo indizio, una certa profondità minerale: un’espressione sotterranea” (p. 108).

Dubuffet, che in quel periodo è fortemente osteggiato per la sua innovativa produzione artistica e per l’uso di materiali non ortodossi, si mostra compiaciuto e onorato della stima che gli rivolge costantemente Bousquet, al quale dona vari dipinti e a cui dedica il ritratto Joë Bousquet au lit (gennaio 1947), attualmente conservato al Museo d’Arte Moderna di New York: “Le sue lettere mi appassionano al grado più estremo. A mia volta, devo dire che queste lettere redimono tutta la mia vita, le procurano giustificazione, insomma le danno esistenza. E, al di là di tutto, mi sono preziose. Lei arricchisce particolarmente i miei lavori, li dota di un potere straordinario, me li rende magnetizzati, incantati, li tocca con la sua bacchetta e me li restituisce impregnati di vita ed ora eccomi, io stesso, meravigliato! Meravigliato delle mie proprie opere! Che gioia!” (p. 161).

Come si evince dalla presente corrispondenza, tra i due intellettuali si crea non solo un sodalizio affettivo, ma anche un proficuo scambio di idee, trasposte dall’uno sul piano della creazione letteraria, dall’altro sul piano della creazione pittorica: “Pensare che siamo amici è per me un grande principio di orgoglio. Ed ho bisogno di orgoglio come altri hanno bisogno di libertà, di pace”, gli confessa apertamente Bousquet in una lettera del 5 ottobre 1945 (p. 67). Utilizzando lo stesso registro comunicativo e relazionale, Dubuffet si rivolge all’amico infermo: “Che interlocutore meraviglioso è lei! Che compagno di squadra per danzare a due! Costruisco il violino e lei lo suona, rimango interdetto, stupefatto nel sentirla dare vita e parola al mio violino” (p. 169).

Attraverso questa preziosa corrispondenza, si fa strada nei due autori una serrata critica alla cultura imperante nell’immediato dopoguerra. Bousquet non lesina frecciate acuminate alle teorie dell’esistenzialismo in voga (“Che m’importano le ambizioni smisurate dei metafisici e dei teologi!” [p. 101]), mentre Dubuffet, da sempre ostile alla cultura “ufficiale”, esprime con tono perentorio la propria singolare e irriverente Weltanschauung: “Sempre più m’invade il sentimento per cui l’arte – voglio dire la vera arte, la vera creazione d’arte – comincia dove cessano le idee e credo che la grande aberrazione europea sia stata – e resti – quella di mirare ad opere d’arte (o di poesia) nutrite d’idee. Ma detesto le idee; le ritengo talmente vuote! Voglio dell’arte acefala” (p. 181).

Joë Bousquet, Lettere a Poisson d’Or

Ammettere che un uomo come me possa amare è rinnegare l’amore
e porre un segno d’infamia sulla bellezza delle donne.
(J. Bousquet)

Nell’ambito della storia della letteratura mondiale, le Lettere a Poisson d’Or, di Joë Bousquet (recentemente apparse in edizione italiana a cura di Adriano Marchetti, presso la casa editrice Moretti&Vitali) costituiscono una perla di inaudita e indescrivibile bellezza, per l’intensità della scrittura, la tensione lirica, l’ammaliante e armoniosa prosa poetica. Al pari delle Lettere a Katherine Whitmore, del poeta spagnolo Pedro Salinas, siamo all’apice di una spiritualità pura, al vertice di un canto mistico, struggente, in cui l’Eros, non trovando pieno sbocco nella realtà concreta della passione carnale, si sublima attraverso il dire malinconico delle parole effimere. È il desiderio muto, strozzato, disperato, di un abbraccio non dato, di una pulsione erotica repressa, di un cuore che palpita inutilmente contro il muro dell’insormontabile impossibilità di essere appagati sul piano affettivo, intimo, emotivo.

Nel luglio del 1937, il quarantenne Bousquet conosce a casa dell’amico James Ducellier la giovanissima Germaine Mühlethaler, che festeggia lì i suoi ventuno anni. Lo scrittore francese, paralizzato dal maggio 1918, si innamora a prima vista della splendida ragazza di origini svizzere, bionda, dagli occhi cerulei, tanto da spedirle immediatamente lettere di appassionato e sincero amore: “Vorrei restituirvi un po’ della luce che avete acceso nel mio crepuscolo” (p. 26), le confessa apertamente nella sua prima lettera del 1° agosto 1937; e ancora, di lì a qualche giorno, l’8 agosto 1937: “Se fossi un uomo giovane, Germaine, vi direi, che appena vi ho vista, vi ho amata” (p. 31).

Bousquet riconosce in Germaine, metaforicamente ribattezzata nel corso delle epistole “Poisson d’Or”, la donna reale che incarna pienamente un enigmatico sogno d’infanzia, relativo a un pesce d’oro, simbolo, a suo dire, del sentimento amoroso: “[…] in questo sogno irrealizzabile, ho reso al mio amore tutta la purezza attinta dal mio cuore alle sorgenti della vita. Vedevo questa giovane ragazza attraverso la luce della mia infanzia. La vedevo nel mio cuore affinché la sua ingenuità, la sua freschezza inventassero con me la vita che ci saremmo dati a vicenda conformandoci alla trasparenza che è solo nel nostro amore…” (p. 40).

Bousquet è affascinato e avvinto dalla bellezza esteriore e dai modi gentili, garbati, della giovane donna. La grazia angelicata di Germaine sconvolge le notti insonni di Bousquet, lasciandogli fantasticare, ad occhi aperti, la magia di un amore possibile, l’oltrepassamento della propria cronica solitudine: “Vi amo, Germaine, ditemi che lo sapete, che volete solo scendere con me in questo amore, conoscerne tutti i segreti che mi fanno battere il cuore” (p. 36); “Io non posso amarvi senza diventare il cuore di tutto ciò che con me esiste. Il mio essere è per voi tutto spirito a furia di essere l’intelligenza di tutto ciò che ci ha avvicinati. Una luce del peso della rugiada si posa nel vento grigio di un giorno profumato, dolce quanto la carne” (p. 38); e ancora: “Il tuo viso, la tua eleganza, tutta la tua silhouette così affascinante avevano invaso i miei occhi ed aprivano a tutto il mio corpo un’occasione di entrare nella vita dei miei sogni” (p. 103).

Nonostante l’amore sia sinceramente ricambiato anche dalla ragazza, e la relazione si prolunghi per ben dodici anni (dal 1937 al 1949), Bousquet è costretto, suo malgrado, a frenare razionalmente, nel corso del tempo, il proprio sconfinato ardore. Conscio di essere impossibilitato nel fisico ad amare una donna, si arrende disilluso e amareggiato di fronte alla situazione limite, oggettiva, della propria insanabile ferita: “Cara Germaine, una ferita come la mia ha distrutto in me le fonti stesse della vita. Per una conseguenza, in certe circostanze, felice, essa ha sprofondato in un blocco di ghiaccio tutto ciò che in me non era spirito, e ho spesso trascinato la mia carne come una palla al piede. Non mi accosto a una donna senza che la mia carne sia come un muro per separarci; e a questa dolorosa fatalità ha fatto eccezione solo la vostra prodigiosa rassomiglianza con un mio sogno” (p. 49).

Dopo aver descritto, in maniera dettagliata e poetica, le dinamiche inconsce e travolgenti dell’Eros, dopo aver cantato l’immagine onirica del sogno amoroso, della bellezza incondizionata della fusione che caratterizza il rapporto d’amore, Bousquet soccombe alla triste e ineluttabile realtà della propria condizione di uomo paralizzato. Lascia pertanto che la vita, beffarda e spietata, compia il proprio de-corso e che Germaine sposi, nell’aprile del 1950, un altro uomo: il poeta e teologo eretico (scomunicato) Ferdinando Tartaglia: “Ormai entri in un’altra vita con tutta la tua e nulla si sciuperà della pura immagine che ho di te. La mia vita è esteriormente una vita di scarto, e non ne voglio altre. Mai crescerò se non volendola tale quale mi è stata inflitta, facendo della sua prova un oggetto di desiderio. Occorreva una visione di purezza e di bellezza e che non smentisse il mio sogno cozzando contro il mio corpo ferito. È fatto, ciò che doveva essere è” (pp. 170-171).

David Le Breton, La vita a piedi

L’uomo, quando non si affida alla benevolenza del sentiero di campagna, cerca vanamente di assoggettare con i propri piani il globo terrestre.
(M. Heidegger)

Se analizziamo i Quaderni di Cioran, i suoi diari intimi apparsi postumi, numerosi sono i passi in cui il pensatore rumeno descrive nel dettaglio i benefici del camminare, a livello fisico e a livello psichico. Afflitto sin dagli anni giovanili da un’acuta malinconia, Cioran scopre nell’attività del camminare non solo un antidoto contro il cafard, ma uno stato di benessere momentaneo, un’esperienza consapevole e fattiva di grazia e di felicità: “La felicità per me è stare all’aperto, camminare”; “Camminare è la mia salvezza”; “Un giorno o l’altro scriverò un Trattato sul camminare”. Su quest’ultimo punto, in particolare, Cioran non manterrà gli impegni auspicati, ma l’argomento relativo all’importanza vitale del camminare resta, in ogni caso, in maniera trasversale, al centro della sua riflessione speculativa, tanto nei diari privati, quanto nelle opere pubbliche, date alla stampa.

Sulla peculiarità e i vantaggi del “camminare” si concentra da sempre la riflessione di un altro autorevole intellettuale: David Le Breton, sociologo e antropologo francese che, dopo aver pubblicato Il mondo a piedi. Elogio della marcia (2000) e Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza (2012) ha pubblicato in anni più recenti La vita a piedi. Una pratica della felicità (2020), da poco apparso per le edizioni Raffaello Cortina, nella traduzione di Paola Merlin Baretter. Riprendendo e approfondendo, in chiave contemporanea, le acute riflessioni dell’americano Henry Thoreau, Le Breton vaglia con acribia e passione i benefici sull’uomo, nel mondo odierno, della prassi naturale, ma “rivoluzionaria”, del camminare: “[…] camminare non è un dovere, bensì un gioco, un artificio per ritrovare la spensieratezza che fu dell’infanzia” (pp. 16-17).

La nostra società, ipertecnologica, esige e propugna dogmaticamente, in quanto valore assoluto e imprescindibile, la velocità del viaggio. È ostile alla lentezza del cammino, della meditazione e della introspezione. Il tragitto è solo un inconveniente da superare, nel più breve tempo possibile, un intermezzo sconveniente compreso tra il luogo di partenza e la meta di arrivo. La riflessione di Le Breton, in controtendenza rispetto al sistema capitalistico occidentale, che svilisce la dimensione umana nell’ingranaggio di un impianto tecnico onnivoro, che ha di mira il mero funzionamento dell’apparato e del divertimento, riabilita quella condotta salubre del camminare lento e disinteressato che abbiamo gradualmente obliato, sotto il peso di una smaniosa idea di progresso, imposta dalla modernità:

Camminare è un’immersione nella sovrabbondanza del mondo, una sete di andare al di là delle apparenze organizzate e asettiche delle nostre città, nelle nostre campagne, dei nostri luoghi di vita abituali, per spingersi quanto più vicino possibile a quel brulichio di vita che abbiamo smesso di vedere a causa delle tecniche che hanno soppiantato la relazione con il mondo e della ripartizione di tutto il territorio attraverso l’urbanizzazione. Camminare significa riportare lo sguardo sull’ambiente, purificandolo dalla routine che non consente più di vedere granché, intorno a sé (p. 114).

Quella di Le Breton è una “rivoluzione” moderata, pacata, in linea con i principi della “decrescita serena”, teorizzati da altri autori come Jacques Ellul, Cornelius Castoriadis e Serge Latouche. L’uomo deve riappropriarsi dei suoi spazi vitali, ascoltare e assecondare serenamente i suoi reali bisogni, non essere un semplice e passivo consumatore di ciò che gli viene proposto dalla società borghese in quanto promessa di una felicità artificiale e fittizia: “Camminare significa esistere, nel senso forte del termine, come la stessa etimologia ci ricorda: ex-sistere, allontanarsi da un luogo fisso, fuggire da sé. Ricorrere ai sentieri, ai cammini significa sfidare i valori cardinali delle nostre società postmoderne” (p. 22); dal momento che “Il camminatore ritrova un mondo premoderno, antecedente alle separazioni” (p. 137).

Ritornando alla natura, camminando lungo sentieri sconosciuti, passeggiando liberamente “a passo d’uomo”, secondo un proprio ritmo sostenibile, l’uomo riscopre il contatto con sé e con il mondo, si riappropria autenticamente della propria identità, percepisce di essere parte integrante del tutto. È una metamorfosi spirituale, che attiene alla radice profonda della nostra esistenza, alla sacralità del nostro stare al mondo, in simbiosi con il creato e gli altri esseri viventi: “Lungo o corto, il cammino è un percorso di guarigione, di riconciliazione con il mondo. Chiudere la porta di casa dietro di sé significa prendere congedo dalle preoccupazioni del passato e riprendere in mano la propria esistenza” (p. 193).

Jean Dubuffet, Piccolo manifesto per gli amatori d’ogni genere

Chi ha detto che ci sono regole, scuole e maestri da seguire nel campo dell’arte? È possibile giungere ad un ideale di bellezza assoluta, universalmente valido? La concezione estetica che si è imposta in Occidente è da considerarsi l’espressione più alta, mai raggiunta nella storia dell’umanità, o piuttosto ogni cultura in una determinata epoca storica, e in un determinato contesto geografico, elabora una propria concezione artistica? Hanno tutte pari dignità o è possibile fare dei raffronti, al fine di pervenire ad una fantomatica classificazione?

Il francese Jean Dubuffet (1901-1985), pittore e scultore, ideatore e teorico dell’Art Brut (arte rozza) ancor prima di dare alle stampe nel 1969 Asphyxiante culture, elabora la propria dinamitarda, esplosiva, insolente, irriverente Weltanschauung estetica, in un meraviglioso scritto del 1946: Prospectus aux amateurs de tout genre, recentemente tradotto in lingua italiana da Alessandra Ruffino per la casa editrice Allemandi. L’edizione italiana, che raccoglie anche alcuni testi inediti, è un piccolo gioiello di luce abbagliante, un tassello imprescindibile, per chi ama la cultura autentica (quella eretica, eterodossa), non allineata alla “cultura” ufficiale, dominante, che pretende sempre di indicare quale sia la strada giusta da seguire per giungere ad una astratta verità universale: “La verità non si lascia circoscrivere, abbracciare per intero con lo sguardo. Se ne possono solo afferrare degli aspetti. E ancora: per lampi” (p.143).

L’anti-idealista Dubuffet non crede, dunque, che possa esistere un ideale di bellezza sovrastorica, eterna, di cui l’Occidente sarebbe, con velleitaria presunzione, l’unica, univoca, verace testimonianza. Secondo l’artista francese, infatti, tutto ciò che è umano cade sotto la scure del tempo, della finitezza, della provvisorietà e della caducità. “Tutto ciò che è umano è mortale” (p. 142): ecco l’assioma inconfutabile e portante, il fulcro nevralgico, attorno a cui si costituisce l’ermeneutica del finito di Dubuffet.

Se è vero ciò, la bellezza è ovunque e in ogni tempo, trasversale ad ogni cultura: “Nelle società semplici e sane, presso i negri d’Africa o d’Oceania ad esempio (almeno fino a quando i marescialli degli zuavi e missionari non arrivano ad abbrutirli) non si fan tanti complimenti come da noi con la pittura o scultura. Qualunque contadinello, a fine giornata, si mette a modellare una statuetta se gliene viene capriccio, senza preoccuparsi di fare prima 10 anni di studi in una scuola di Belle Arti. E bisogna ammettere che il risultato non è così cattivo, dato che tutti i nostri artisti sono pieni di ammirazione per le opere fatte dai negri con tanta inventiva e fantasia” (p. 55).

Dubuffet non è solo un artista innovativo e rivoluzionario (per lo stile insolito, per le tecniche e i materiali utilizzati) nell’ambito della storia dell’arte del Ventesimo secolo ma, ancor di più, un acuto teorico dell’arte, un profondo osservatore ed interprete di questioni filosofiche, psicologiche, antropologiche. Come Lévi-Strauss, Dubuffet riabilita i popoli non civilizzati, le civiltà primitive, non corrotte dall’“asfissiante cultura”, fatta di schemi, concetti, teorie, idee, ma soprattutto pregiudizi. Dubuffet, con Nietzsche, e con spirito dionisiaco, sostiene che non vi sia altra finalità nell’arte se non quella di divertire, emozionare, affascinare, incantare o scandalizzare: “L’arte è fatta solo di ebbrezza e follia” (p. 44); essa “deve sempre un po’ far ridere e un po’ far paura” (p. 62).

L’arte possiede allora un linguaggio proprio, innato, istintivo e a nulla serve frequentare le prestigiose Accademie sparse in giro per il mondo: “Dipingere è come parlare o camminare. Per l’essere umano fare schizzi su qualunque superficie capiti sotto mano, scarabocchiare qualche immagine, è naturale come parlare” (p. 54). L’Occidente ha però trasformato un linguaggio spontaneo e universale, in un sapere specialistico, elitario e settario. È questo l’abominio che macchia, in maniera indelebile, la cosiddetta “civiltà” e che Dubuffet mette a nudo nella sua ricostruzione esegetica.

Come sopperire a ciò? Come salvarci da tutte le forme di cultura colte (filosofia, poesia, musica) che hanno asservito e schiavizzato l’uomo, invece di liberare le sue energie primordiali e vitali? Con la sua scrittura irriverente e ironica, Dubuffet ci insegna che dobbiamo ritornare alla terra, sporcarci le mani, attingere al materiale grezzo, alla fonte pura e oscura della vita, alla linfa germinale, senza voler costruire o ipotizzare altri mondi lontani: “Aspiro a un’arte che sia direttamente connessa alla vita quotidiana, un’arte che prenda avvio da questa vita quotidiana, che sia un’emanazione immediata della nostra vera vita e dei nostri veri umori” (p. 170).

Joë Bousquet, L’ombra di ciò che unisce

Per comprendere pienamente il tono e la specificità dell’amicizia intercorsa tra lo scrittore francese Joë Bousquet e il pittore belga René Magritte basta sfogliare le pagine dense e coinvolgenti di un recente volume magistralmente curato da Arlindo Hank Toska per le edizioni Mimesis: L’ombra di ciò che unisce. Tale volume raccoglie le lettere spedite dal poeta di Carcassonne all’amico artista negli anni 1946-1948, più qualche altra preziosa testimonianza come la Prefazione al catalogo della mostra di pittura Les Maîtres du Surréalisme, svoltasi a Tolosa dall’8 al 24 marzo 1946.

Bousquet, affascinato dalle avanguardie dell’arte contemporanea, considerate una via di fuga privilegiata rispetto alla propria drammatica condizione di infermità fisica, non lesina il proprio entusiasmo e la propria stima rivolgendosi a Magritte: “Tu nutri i miei sogni inviandomi le tue meravigliose collezioni”, gli scrive il 28 luglio 1946 (p. 23), e in una lettera successiva gli confessa apertamente: “i Magritte sono il mio universo” (p. 28).

Siamo nel pieno del secondo conflitto mondiale, quando i due si conoscono. La Germania nazista ha appena invaso il Belgio e l’Olanda e Magritte cerca protezione nell’estate del 1940 nel Sud della Francia, proprio nella cittadina medievale di Carcassonne. Qui incontra e frequenta assiduamente Bousquet nella sua chambre, al numero 54 di rue Verdun. Tra i due nasce un sodalizio intenso, che si protrae intatto nel corso degli anni, basato soprattutto sull’amore sconfinato e disinteressato per la pittura: “Siamo amici e abbiamo scoperto che questa amicizia era solo l’ombra di ciò che unisce le nostre vite”, gli rammenta poeticamente Bousquet (p. 30).

Nel carteggio sono presenti questioni teoriche sui colori, come quella riguardante il “nero eclissi” e il “nero sorgente”, commenti sulle opere pittoriche prodotte da Magritte o considerazioni estemporanee su altri artisti, come Max Ernst e Hans Bellmer. Bousquet, in particolar modo, segue con estremo interesse l’evoluzione artistica del proprio amico, chiedendogli anche ragguagli di carattere economico, circa le sue opere: “Magritte, ti prego, scrivimi. Dimmi a che prezzo mi cederesti le tue tele più recenti, su quali condizioni di pagamento potrei contare” (p. 24).

Magritte ricambia l’amicizia e la fiducia espressa da Bousquet inviandogli disegni, acquerelli o tele ad un prezzo di favore. Una di queste, risalente al 1947, reca come titolo Shéhérazade. Bousquet utilizzerà proprio tale dipinto, che raffigura una “donna-perla”, per “sedurre” una giovane studentessa di Tolosa, Jacqueline Gourbeyre, detta “Isel”, e che sarà la destinataria di un appassionante epistolario tuttora inedito in Italia: Lettres a une jeune fille (Éditeur Grasset).

Cosa unisce Bousquet a Magritte? Cosa accomuna i due autori, teorici e critici al contempo del surrealismo? Ma soprattutto, quali sono gli aspetti che Bousquet ama dell’esperienza artistica di Magritte? Il presente carteggio, grazie anche ad una approfondita Prefazione del curatore, aiuta a sciogliere tali interrogativi. Bousquet, imprigionato, paralizzato nella realtà del proprio corpo, a seguito di una incurabile ferita riportata durante la “Grande Guerra”, interpreta le tele dell’amico Magritte come costante apparizione di un sogno, come disvelamento di un mistero.

È un mondo “onirico”, che lo stesso Bousquet alimenta e insegue indomito con la fascinazione della propria scrittura, per obliare l’indicibile dolore di vivere quotidianamente la morte e nel tentativo estremo di dare voce all’inconscio, di tradurre il silenzio in parole, di trasporre il fondo abissale di sé in un linguaggio metaforico o cifrato. Bousquet si rifugia così nella radura dell’immaginazione per sfuggire l’invalicabile muro del reale e si confronta con l’Ombra, attingendo alla sua sorgente pura al fine di cogliere, sul piano spirituale, un esiguo scampolo di vita, un effimero barlume di salvezza, nonostante il buio profondo dell’esistenza in cui è murato, come il Sigismondo de La vida es sueño: “Fuori dal nero, la luce non è: nel nero l’ombra è bagliore” (p. 55).

Georg Simmel, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici

In un saggio del 1925, il filosofo e musicologo francese Vladimir Jankélévitch afferma: “La notion de Vie est déjà comme le principe moteur, invisible et inexprimé, de l’épistémologie simmélienne”. La domanda relativa al “mondo della vita” rappresenta uno degli argomenti più discussi nell’ambito della filosofia contemporanea e risulta essere centrale soprattutto nell’esperienza speculativa di Georg Simmel, uno dei più grandi pensatori del ventesimo secolo, trovando la sua più compiuta e completa esposizione nel volume pubblicato postumo, nel dicembre 1918, Lebensanschauung: vier metaphysische Kapitel, disponibile nuovamente al pubblico italiano col titolo Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici (tr. it. di Gabriella Antinolfi, Mimesis Edizioni).

Sei mesi prima della sua morte, è lo stesso Simmel a confidare all’amico Hermann Graf Keyserling, in una lettera del 25 marzo 1918, di essere completamente assorbito da “complicate ricerche nel settore dell’etica e della metafisica”. Affetto da carcinoma maligno e in preda a forti dolori fisici, il filosofo e sociologo berlinese lotta strenuamente contro il tempo al fine di ultimare quello che considera il suo “testamento”: “La mia salute va molto male: di conseguenza la mia energia spirituale è notevolmente diminuita. Devo raccoglierla per terminare un libro a cui tengo molto perché rappresenta il briciolo di saggezza a cui sono giunto. Prima che sia terminato, niente altro può esistere per me”.

Il saggio Lebensanschauung, di carattere metafisico, si compone di quattro parti: La trascendenza della vita, La svolta verso l’idea, Morte e immortalità, La legge individuale. Fulcro nevralgico dell’intero volume è l’idea della limitatezza e della caducità della vita, che sarà ampiamente trattata poi dai teorici della filosofia dell’esistenza (Heidegger, Jaspers), ma anche da pensatori esistenziali privati come Emil Cioran. Non è un caso che proprio l’“intellettuale senza patria” romeno riconosca in Simmel un idolo indiscusso e insuperato della propria travagliata gioventù: “Il mio orientamento ‘filosofico’ è stato segnato da questa frase di Simmel nel suo breve saggio su Bergson, che ho letto attorno al 1931: ‘Bergson non ha visto il carattere tragico della vita, la quale, per conservarsi, deve distruggersi’” (Quaderni, p. 1046).

Come ha evidenziato anche Franco Volpi, infatti, Simmel approda a “una filosofia della vita pessimistica, dagli esiti misticheggianti” (Il nichilismo, p. 56). Il fulcro nevralgico attorno a cui ruota la sua riflessione in Lebensanschauung è quasi un’ontologia del limite, che investe qualsiasi ambito della vita (personale, sociale, storica): “La posizione dell’uomo nel mondo è definita dal suo trovarsi in ogni istante tra due limiti, in qualsiasi dimensione delle sue proprietà naturali e del suo comportamento. […] Per il fatto di avere sempre e ovunque dei limiti noi stessi siamo limite” (p. 29). Il limite attanaglia e stringe ogni forma dell’umano. Esso è connaturato in maniera fisiologica all’essere dell’uomo e si esplica nei vari modi in cui si manifesta o si concretizza la vita.

L’uomo è dunque inesorabilmente stretto nella morsa del limite ed è consapevole della drammaticità e ineluttabilità di tale condizione. Ma c’è un elemento che più di tutti incombe, come una spada di Damocle, in ogni singolo istante: lo spettro della morte: “La vita che noi consumiamo nell’avvicinarci alla morte, la consumiamo per fuggire la morte. Noi siamo come degli uomini che procedano su una nave in direzione opposta alla sua rotta: mentre essi vanno verso Sud, il ponte su cui camminano viene portato verso Nord insieme con loro. E questa duplice direzione del loro essere in movimento determina di volta in volta la loro posizione nello spazio” (p. 118).

La vita ci ricorda Simmel è costante movimento, mutamento, incerto e assurdo divenire, entro il limite del limite. Una prigione dell’impossibilità, un intricato labirinto, alla cui guardia vi è la morte. Se è questa la condizione umana, una condizione esposta al nulla, sospesa su un baratro, sempre minacciata dalla voragine, dalla caduta, dal fallimento, a nulla valgono le effimere creazioni umane (l’arte, la religione, la scienza, l’etica), che restano labili palliativi di un’effimera sopravvivenza, nella palude della contingenza e della caducità. Le espressioni che noi creiamo, in opposizione alla forza devastante della vita, non possono minimamente contenere, indirizzare o contrastare la vita stessa. Vi è un’eccedenza della vita e della realtà rispetto all’individualità e all’idealità. Questo vale anche per la filosofia, che resta perennemente “pensiero debole”, dal momento che “tra la natura della realtà e quella dei nostri concetti sussiste una vera e propria discrepanza, in conseguenza della quale questi non possono mai, per dir così, contenere appieno quella” (p. 225).

Secondo Simmel, infatti, nessuna filosofia potrà mai restringere la vita entro coordinate logico-semantiche o addirittura costringere l’accadere temporale a rientrare sotto il dominio del concetto. La vita, totalità dei possibili, costituisce perennemente un’eccedenza rispetto alle bramosie dell’intelletto, una forza estremamente fluida, flessibile, dilatante, in grado di sconvolgere ogni volta i sogni totalitari di ogni metafisica e dunque di spegnere gli “spasmi” assolutistici del pensiero, frutti ognuno di una cieca volontà di potenza. La vita, totalità delle forme, si sussegue realizzando se stessa nella caoticità del divenire senza alcun interesse e senza alcuna ragione. Essa precede il pensiero, che la rincorre senza soste.

Franca Alaimo, 7 poemetti

[…] scrivere vuol dire non dimenticare nulla di ciò che il mondo dimentica.

(C. Bobin)

Una poesia della fragilità e della finitezza, caratterizza la recente silloge della palermitana Franca Alaimo (7 poemetti), edita da Interno Libri. Una raccolta di versi e aforismi leggeri, di una parola pacata, sommessa, che non proferisce e non dice, se non il proprio pudico silenzio e che si pone in ascolto del Mistero assoluto, nell’indicibile calma della notte: “Quanto grande è la notte che guarda / con occhi stellati l’oblio dei dormienti!” (p. 17).

C’è qualcosa che ci sovrasta e che non comprendiamo, qualcosa che ci trascende. E allora la poesia di Franca Alaimo se ne resta in attesa, con timore e tremore, con lo sguardo stupefatto pronta ad accogliere col cuore frammenti di bellezza. Il reale è l’effimero, il continuo trapassare, l’inesorabile mutare. Ma se tutto cambia e muore, dove risiede per l’uomo uno scampolo temporaneo di salvezza?

La poetessa Franca Alaimo si rifugia momentaneamente nel tepore delle parole: “Ho qui, dentro il petto, un groviglio così fitto di spine, che le parole ne hanno paura. Si limitano a vedermi sanguinare e mi lasciano sola a intingere il dito nell’inchiostro vermiglio del dolore. Ma restate, lo stesso, ve ne prego, accoccolate ai margini del foglio, e fatemi capire, anche con muti cenni, che mi amerete ancora” (p. 65).

Ci sono versi silenti, che non necessitano di interpretazione. Non richiedono alcuna esegesi, perché esprimono una verità apodittica, lampante: “La vita è irrequieta. / Siamo fatti degli stessi atomi / di una stella che cade. / Però possiamo ricordare” (p. 15).

Come ogni cosa che esiste, noi siamo pulviscoli di materia nell’universo infinito, veniamo dal nulla e andiamo verso un nulla. Eppure, a differenza delle altre cose esistenti, nel breve tratto del proprio esserci, l’esistenza ha la capacità di ricordare, di tener desta la memoria, sino al sopravvenire della morte fisica.

E nel ricordo si situa autenticamente la poesia, nella parola rammemorante: “[…] scrivo per ricordare, / ricordo per non sparire, / per farmi nido in bilico sul ramo / e accogliere la solitudine delle cose / salvandole dal tempo, dal suo segreto / oscuro e doloroso, quasi disumano” (p. 28).

Se è vero ciò, se è vero che la poesia è ricordo di ciò che è stato, tentativo di salvaguardare i pochi attimi di senso nell’insensatezza generale (un bacio, un abbraccio, una carezza, uno sguardo), per non cedere allo straripante potere della dimenticanza, che annichilisce il tutto, la poesia diventa allora un atto di profonda tenerezza, l’unico modo per salvaguardare il ricordo di piccole felicità intraviste: “La memoria è il futuro del passato”, scrive la Alaimo (p. 61); e ancora: “Creare un verso solo. Così bello da bastare a tutte le domande” (p. 46).

Pedro Salinas, Zero

Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.

(P. Levi)

L’utilizzo della bomba atomica durante il secondo conflitto mondiale apre uno squarcio profondo nel corso della storia, con implicazioni etico-politiche. Un acuto osservatore, come il filosofo tedesco Karl Jaspers, sostiene in un voluminoso saggio pubblicato nel 1956, La bomba atomica e il destino dell’uomo, che “[…] la bomba atomica (bomba all’idrogeno, bomba al cobalto) è un evento fondamentalmente nuovo. Essa porta infatti l’umanità alla possibilità del totale annientamento per suo stesso mezzo” (p. 9). Ma Jaspers non rappresenta una voce isolata nell’ambito dell’intellighenzia europea. Sempre sul piano filosofico, di grande rilievo risulta essere il pensiero di Günther Anders, autore tra l’altro di un interessante scambio epistolare con Claude Eatherly, il giovane pilota del bombardamento atomico su Hiroshima, e del racconto Diario di Hiroshima e Nagasaki: “Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti in modo negativo;ma potendo essere distrutti ad ogni momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti” (p. 201).

Ancor prima dell’impiego delle armi atomiche nelle due città nipponiche, in Europa assistiamo a massicci bombardamenti, finalizzati a liberare il territorio dall’occupazione nazista. Lo scenario apocalittico inaugurato con l’utilizzo di tali armi scuote l’opinione pubblica, le coscienze dei singoli individui, e gli intellettuali cercano di interpretare e comprendere l’inimmaginabile che è sotto gli occhi di tutti, caratterizzato da devastazione, città smembrate, macerie fumanti. Una preziosa testimonianza, in tal senso, di un’umanità scossa e ferita, è quella del poeta spagnolo Pedro Salinas, in quegli anni, esule sull’isola di Puerto Rico. Dopo aver poetato il sentimento amoroso nelle sue polimorfe e mutevoli sfaccettature (si rinvia alla sua “trilogia amorosa”), divenendo già per questo un “classico” della poesia mondiale, Salinas nel poema Zero, composto a seguito dei bombardamenti americani nel sud Italia nell’estate 1943 e recentemente pubblicato da Interno Poesia, nella splendida traduzione di Lia Ogno, si confronta stavolta non con la pulsione erotica, che appassiona e dona vita, ma con la barbarie in cui può scivolare l’“antiragione”, e che apre inenarrabili scenari di morte.

Quella di Salinas è una voce “profetica”, rispetto a quanto avverrà di lì a qualche anno in Giappone. Ecco il commovente incipit dell’opera: “INVITO al pianto. Questo è un pianto, / occhi piangenti, senza fine, / tra le macerie, lungo le rovine / d’innumerevoli giorni. Rovine sparse / da uno zero – autore di nienti, opera / dell’uomo –, da uno zero quando esplode” (p. 33). Salinas avverte lo sconcertante annichilamento del tutto e riconosce esterrefatto, incredulo, che l’abominio è “opera / dell’uomo”. Il tema della responsabilità umana, dei limiti della scienza e del futuro dell’uomo sulla terra attraversa l’intera composizione poetica. Coi suoi versi, di estremo e intenso lirismo, Salinas si interroga, chiede disperatamente ragioni, ricerca affannosamente un perché: “SI può fare più danno sulla terra? / La polvere che sale su dal crollo, / fumo del sacrificio, le macerie / dicono che si può. Che c’è più pena: / vasto ieri oramai senza presente, / vita immolata in apparente pietra” (p. 51).

Il poeta si muove metaforicamente tra i detriti. Osserva, scruta, esplora con occhi spalancati, ciò che resta della bellezza tramandata nel corso dei secoli: “Continuo a camminare sui detriti, / sono solo. Sto calpestando i resti / di tante abolite perfezioni. / Per secoli, per anni qui approdarono, / trasudanti d’argilla, di granito, / venute qui a posarsi, / stirpi d’umidità, frescura edenica. / Non calpesto materia; nel pietrisco / pesto il maggior dolore: tempo sfatto” (p. 69). Lo spazio, i luoghi, sono completamente alterati e il tempo defraudato della propria continuità. Lo “zero” inaugura un nuovo inizio, genera una voragine, che è quella dello spaesamento e della desolazione, in cui l’individuo non riconosce più la propria appartenenza alla comunità umana, ma percepisce l’aberrante esperienza della disumanità dell’uomo, della sconvolgente inumanità.

Attraverso la lettura di questi versi di incomparabile e struggente tensione lirica sovviene alla memoria la scena straziante de Il pianista, interpretato Adrien Brody, che si aggira atterrito, sgomento e in lacrime tra le macerie di Varsavia. Al contempo riecheggia nella mente il Notturno in do diesis minore di Chopin, che funge da colonna sonora a tale straordinario lungometraggio. Così pure Pedro Salinas, dall’altra parte del mondo, sulle coste incontaminate di un’isola caraibica, immagina di calpestare impaurito quanto resta dell’umana speranza in un paesaggio di spettrale e ineffabile abbandono: “Sono l’ombra che cerca tra i detriti. / Ciascuna con i suoi sette dolori, / accorrono a me mille solitudini. / C’è uno, crocifisso, che agonizza / su un desolato Golgota di polvere, / staccato dalla croce, faccia al cielo. / Così senza la croce, sembra un uomo. / Ma ecco ulula un cane, un cane eterno / – un immenso ululato, ma da dove? –, / voce che clama in cerca del Padrone” (p. 73).