“Al culmine dell’alba”. La psicologia dell’amore in Pedro Salinas

Il sogno è una seconda vita[1].

Il sogno non si oppone al reale: il reale contiene il sogno[2].

La voce a te dovuta (dicembre 1933), Ragioni d’amore (giugno 1936), Lungo lamento (composto tra il 1936 e il 1939, ma pubblicato postumo) costituiscono la trilogia delle poesie d’amore di Pedro Salinas, scrittore spagnolo, tra i maggiori del Ventesimo secolo. C’è un elemento che accomuna queste tre opere, al di là della straordinaria bellezza dei versi: l’utilizzo, trasversalmente reiterato, del pronome personale “tu”. Manca sempre un nome, manca qualsiasi riferimento ad una singola persona concreta e viene invece adottato continuamente un generico “tu”. Quest’aspetto insolito ha portato alcuni critici di Salinas a congetturare le più fantasiose ipotesi interpretative. In particolar modo, inizialmente, Leo Spitzer ipotizza, in maniera assolutamente fuorviata, che la donna sia solo un “fenomeno della coscienza” e parla quindi di “concettualismo interiore”[3], mentre Ángel del Río sostiene che “La poesia di Salinas è fatta soprattutto di sottigliezze psicologiche”[4]. In altre parole, l’amore poetato da Salinas sarebbe un amore mistico, ideale, platonico, astratto, senza alcun contatto con il mondo reale, con l’universo delle passioni, della carne, del desiderio, della follia, vale a dire con l’Eros.

In realtà, è lo stesso Salinas a creare le condizioni di questo programmato “sviamento”. Leggiamo a titolo di esempio una poesia tratta da La voce a te dovuta, opera con cui ha inizio il dialogo interiore di un’anima con sé, che si volge e si rivolge ad un’altra anima. È un soliloquio intimo e ininterrotto, è la descrizione, individuale e universale, di ciò che accade all’io, quando è sentitamente e sentimentalmente coinvolto, avvinto da una forza inarrestabile come l’amore, trascinato dal turbine impetuoso delle passioni. Facciamo riferimento alla poesia XIV:

Per vivere non voglio

isole, palazzi, torri.

Che altissima allegria:

vivere nei pronomi!

Getta via i vestiti,

i connotati, i ritratti;

non ti voglio così,

travestita da altra,

figlia sempre di qualcosa.

Ti voglio libera, pura,

irriducibile: tu.

Quando ti chiamerò, so bene,

fra tutte le genti

del mondo,

solo tu sarai tu.

E quando mi chiederai

chi è che ti chiama,

che ti vuole sua,

sotterrerò i nomi,

le pergamene, la storia.

Comincerò a distruggere quanto

m’hanno gettato addosso

da prima ancora ch’io nascessi.

E ritornato ormai

all’eterno anonimato

del nudo, della pietra, del mondo,

ti dirò:

«Io ti voglio, sono io»[5].

A dire il vero, la poetica di Salinas non trascende la dimensione empirica, fattuale, carnale, pur essendo di un’accecante intensità trascendentale. Essa rappresenta l’apice dell’ineffabile dire amoroso, il “culmine dell’alba”[6], parafrasando lo stesso Salinas. Nei versi del poeta madrileno è possibile scorgere l’Assoluto, la grazia, Dio, il divino, ma questa dimensione “ultraterrena” e “metafisica” del linguaggio lirico, che tenta di dire l’inesprimibile, attingendo inconsciamente al sottosuolo onirico, non ha a che fare con l’ulteriorità, ma con l’immanenza, “umana, troppo umana” del sentimento amoroso, che lacera l’interiorità, che strugge e toglie il fiato. Qui in gioco, nel gioco “demoniaco” della creazione dei versi, non vi sono idee o concetti, ma più semplicemente l’improvviso e inspiegabile palpito del cuore. Dietro la fraseologia poetica di Salinas, vi è la fisiologia, la psicologia di un amore vissuto e patito, in carne ed ossa, nel profondo dell’anima. Leggiamo la poesia V, sempre da La voce a te dovuta:

È stato, accadde, è vero.

Fu in un giorno, fu una data

che segna il tempo al tempo.

Fu in un luogo che io vedo.

I suoi piedi toccavano il suolo

questo stesso che tutti tocchiamo.

Il suo vestito

era simile ad altri

che indossano altre donne.

Il suo orologio

sfogliava calendari,

senza scordare un’ora:

come contano gli altri.

E quello che lei mi disse

fu in una lingua del mondo,

con grammatica e storia.

Così vero

che sembrava menzogna.

No.

Devo viverlo dentro,

me lo devo sognare.

Togliere il colore, il numero,

il respiro tutto fuoco,

con cui mi bruciò nel dirmelo.

Mutare tutto in forse,

in mero caso, sognandolo.

Così, quando vorrà smentire

ciò che mi disse allora,

non mi morderà il dolore

d’una felicità perduta

che io tenni fra le braccia,

come si tiene un corpo.

Crederò di aver sognato.

Che tutte quelle cose, così vere,

non ebbero corpo, né nome.

Che perdo

un’ombra, un sogno ancora[7].

In queste righe vi è un’esplicita e, al tempo stesso, enigmatica ammissione di un dato di fatto, dello status quo: “È stato, accadde, è vero”. Salinas riconosce che è tutto “vero” ciò di cui parla, è la verità, non è una finzione. Si riferisce ad una donna concreta: ai suoi “piedi”, al suo “vestito”. Fa riferimento al suo “orologio”, che dà inizio ad un nuovo corso del proprio tempo interiore, ad una nuova età psichica, ad una nuova era nello sviluppo della sua personalità. Ma non svela il nome, non rivela alcuna identità precisa. Oscilla tra la realtà apodittica e il mistero del sogno, finge, mette in scena, inscena, una mistificazione del retroscena, c’è sempre quest’ambivalenza di un rebus che non viene mai risolto, ma che rinvia ad un’Ombra, alla “menzogna”, quasi fosse tutto frutto della fervida immaginazione del poeta, l’effimero e aleatorio prodotto di un sogno sognato. Ma chi c’è realmente dietro il “tu” invisibile e taciuto? Qual è il nome proprio, sotteso al pronome “tu”? Esiste un volto, una figura, uno sguardo, a cui la “La voce a te dovuta” è dovuta? In altre parole: chi è la persona a cui si riferisce Salinas nell’intera raccolta e nell’intera trilogia amorosa?

Grazie al prezioso lavoro del Prof. Enric Bou, autorevole ispanista, abbiamo accesso a parte della corrispondenza con la donna che ha ispirato Salinas, la “Musa ispiratrice”, la femme fatale che ha inavvertitamente ammaliato, sedotto e sconvolto la vita dello scrittore spagnolo, sino alla morte: l’americana Katherine Whitmore, donna bella, affascinante, trentacinquenne all’epoca del loro incontro, avvenuto nell’estate del 1932. Salinas aveva quarant’anni, era sposato con Margarita Bonmatí Botella, di sette anni più adulta, e aveva due figli: Jaime e Solita. Lavora al Centro di Studi Storici, era professore presso l’Università di Madrid ed è uno dei fondatori dell’Università Internazionale di Santander. Katherine, invece, insegna allo Smith College, e si reca a Madrid per seguire un corso di letteratura spagnola, tenuto proprio da Salinas. Sin dalle prime lezioni è “colpo di fulmine”, come si evince da una delle primissime lettere della corrispondenza: “Nessuno ha notato niente, nessuno si è accorto di nulla. Ma quella sera, uscendo dall’aula, il mondo portava con sé una nuova illusione, un desiderio ulteriore. Ti assicuro che pensavo non l’avresti mai saputo. Ho pensato che saresti passata al mio fianco senza che io potessi avvicinarmi alla tua altezza divina, lontana e superiore, come gli dèi e i desideri più alti. ‘Lo saprà mai?’, mi sono chiesto tra me e me” (lettera del 2 agosto 1932)[8].

L’incontro avviene all’insegna di un bagliore accecante, di una “luce improvvisa”[9], che stravolge il percorso esistenziale di Salinas. Nulla sarà più come prima: i giorni, le notti, gli impegni accademici, la famiglia. Tutto passa in secondo piano, tutto diviene secondario, talvolta irrilevante. Infatti, grazie all’amore, corrisposto da Katherine, Salinas percepisce un sentimento di unità totale, di completa integrazione col mondo. Non si sente isolato, estraneo, straniero, estraniato, ma accolto tra le braccia della persona amata, riconosciuto dallo sguardo di lei, per dirla con Sartre, “giustificato di esistere”[10]. È ebbro di sé perché il suo ha valore incondizionato agli occhi dell’altro. La relazione con la giovane americana diviene, pertanto, l’intero suo mondo: un mondo auto sussistente, in virtù del quale egli percepisce, come suggerisce la poesia XLV, una sensazione di costante “elevazione”, “ascensione”, “ascesa”:

La materia non pesa.

Il tuo corpo ed il mio,

uniti, non sentono mai

schiavitù, sentono ali.

I baci che tu mi dai

sono sempre redenzioni:

tu baci verso l’alto,

e qualcosa di me porti a luce,

costretto prima

nel fondo oscuro.

Lo salvi, lo guardiamo

per vedere come ascende,

e vola, per l’impulso che gli dai,

verso il suo paradiso

dove ci aspetta.

No, non opprime la tua carne

e neppure la terra che calpesti

né il mio corpo che stringi.

Sento, quando mi abbracci,

che ho tenuto contro il petto

un lieve palpitare,

vicinissimo, di stella,

che viene da un’altra vita.

Il mondo materiale

nasce quando tu parti.

E sull’anima sento

quest’oppressione enorme

di ombre che hai lasciato,

di parole, senza labbra,

scritte su fogli di carta.

Restituito alla legge

del metallo, della roccia,

della carne. La tua forma

corporea,

il tuo dolce peso rosa,

è ciò che mi rendeva

il mondo più lieve.

Ma ciò che non sopporto

e che mi schiaccia,

chiamandomi alla terra,

senza te per difendermi,

è la distanza,

è il vuoto del tuo corpo.

Sì, tu mai, tu mai:

il tuo ricordo, è materia[11].

L’amore tra Salinas e Katherine Whitmore è in ogni caso un amore “in sospeso”, “in bilico”, vissuto tra le difficoltà oggettive della distanza geografica e la consapevolezza di essere espressione di una relazione extraconiugale. Col passare del tempo, l’entusiasmo iniziale dell’innamoramento è messo a dura prova dalla “situazione-limite” del vincolo matrimoniale, cui è legato Salinas. Katherine reclama maggiori certezze, vorrebbe un salto di qualità nella relazione, e soprattutto il rapporto subisce un’inclinazione netta a seguito del tentato suicidio, il 27 febbraio 1935, di Margarita, moglie del poeta spagnolo. Sia nelle lettere, che nelle poesie, a partire soprattutto dalla silloge Ragioni d’amore, si avverte la comparsa di una velata sfumatura di grigio, nel cielo limpido e azzurro dell’amore. Progressivamente, si va insinuando il tarlo minaccioso di una possibile fine, di una separazione, di un abbandono, di un addio, di un “no” che segue a un “sì”, di un doloroso e ineluttabile ritorno al mondo cupo della spettrale solitudine.

Questo processo inevitabile, la traiettoria di questa parabola discendente, è perfettamente visibile, se leggiamo le poesie della raccolta postuma Lungo lamento, e se al contempo prendiamo in considerazione la seconda parte delle lettere. Le poesie e le epistole vanno di pari passo, rappresentano il doppio binario di una medesima psicologia dell’amore, si chiariscono, si integrano e si completano a vicenda. Le lettere stesse presentano un tono poetico: sono poesie scritte in forma di prosa epistolare. Se agli esordi prevale il tema dell’“ascesa”, della “salita”, dell’“apertura”, ora prevale invece quello dell’“inverno”, del “vuoto” e della “caduta”.

La fine di un amore provoca, come sempre, il “lutto” della coscienza, il venir meno del mondo, sul quale avevamo fondato la nostra relazione con il mondo. Salinas avverte il trauma, la ferita, il taglio, e i suoi testi rispecchiano in pieno la modificazione dei sentimenti, la lacerazione nel vissuto, la perdita di coordinate vitali, lo spaesamento, il freddo e il buio dell’esistenza. “Dammi luce e sarò chiaro / non ti stufi la mia pena / di quando tu non mi illumini”[12], sembra essere l’implorazione finale, la supplica conclusiva contenuta in Lungo lamento, la presa di coscienza di un amore perduto, giunto ormai irrimediabilmente al capolino. Emblematica in tal senso la poesia 50, posta a chiusura di Lungo lamento, che rappresenta il grido malinconico e struggente per ciò che avrebbe potuto essere, e che purtroppo, per ironia della sorte avversa, non è più stato:

Non rifiutare i sogni in quanto sogni.

Tutti i sogni possono

esser realtà, se il sogno non finisce.

La realtà è un sogno. Se sogniamo

che la pietra è la pietra, quello è la pietra.

A correre nei fiumi non è un’acqua,

ma è un sognare, l’acqua, cristallino.

Maschera i propri sogni

la realtà e dice:

«Io sono il sole, i cieli, l’amore».

Mai però se ne va, mai si allontana,

se fingiamo che sia più d’un sogno.

E viviamo sognandola. Sognare

è quel modo che l’anima

ha per non farsi mai sfuggire

quel che le sfuggirebbe se smettessimo

di sognare che è vero quello che non esiste.

Solo muore

un amore se non è più sognato

fatto materia e che si cerca in terra[13].

Il sogno, allora, è la chiave di accesso privilegiata per comprendere la complessa e articolata psicologia amorosa di Salinas, che si esplica naturalmente, istintivamente, pulsionalmente, attraverso il dire poetico e la scrittura epistolare. In una lettera del 12 febbraio 1934, quando la relazione con Katherine è ancora solida e idilliaca, Salinas, in treno, di ritorno da Malaga, si riferisce al sogno, con queste parole: “Un sogno, che non ha di chi sognare, è solo un sogno, incompleto, la metà della vita. Ma quando qualcuno ci ama, tanto da farci sognare in esso, quello diventa completo. Tu mi hai amato, affinché io sognassi in te, perché tu sognassi in me. Ed ecco perché oggi, questo pomeriggio, il mio sogno dell’anima è stato perfetto. Grazie, vita, per aver lasciato che ti sognassi e mi sognassi, e sognassi la vita in noi fatta carne, sognata da un uomo e una donna che si amano, sognandosi”[14].

L’amore per Salinas è dunque un sogno che non finisce mai: un sogno perenne, perpetuo, immortale, imperituro, che si nutre avidamente dell’immaginazione e del desiderio. Se corrisposto, è un sogno “reale”, che dona beatitudine ed ebbrezza nell’anima, la pienezza della vita, nella relazione con l’altro, nella fusione miracolosa di due individualità. Se non è corrisposto, o non è più corrisposto, è un sogno “irreale”, “immaginifico”, che la coscienza scissa, lesionata, frantumata, s’inventa per non sprofondare nella palude della propria solipsistica ipseità, della propria glaciale iità, ossia è l’ultimo appiglio, al quale disperatamente aggrapparsi, per lenire, per quel poco che vale, la ferita lancinante di un’aberrante solitudine esistenziale e simulare, a sé e al mondo, di non essere ancora morti, di possedere ancora il privilegio atavico delle lacrime, trattenute a stento negli occhi.


[1] G. de Nerval, Il sogno e la vita, a cura di F. Calamandrei, Einaudi, Torino 1943, p. 101.

[2] J. Bousquet, Le Bréviaire bleu, Rougerie, Mortemart 1977, p. 15.

[3] L. Spitzer, El conceptismo interior de Pedro Salinas, Revista Hispánica Moderna, Año 7, No. 1/2 (Jan. – Apr., 1941), pp. 33-69.

[4] A. Del Río, Historia de la literatura española. Desde 1700 hasta nuestros días, Barcelona 1948, vol. II, p. 502.

[5] P. Salinas, La voce a te dovuta, a cura di E. Scoles, Einaudi, Torino 1979, XIV, p. 49.

[6] Id., Ragioni d’amore, a cura di V. Nardoni, Passigli Editori, Firenze 2006, p. 27, v. 18.

[7] Id., La voce a te dovuta, cit., V, pp. 15 e 17.

[8] Id., Cartas a Katherine Whitmore (1932-1947), Edición y prólogo de E. Bou, Tusquets Editores, Barcelona 2002, p. 41. Per un inquadramento della relazione tra Pedro Salinas e Katherine Whitmore si rinvia a: J. Cross Newman, Pedro Salinas y su circunstancia. Biografía, traduccion de R. Cifuentes, Páginas de Espuma, Madrid 2004, pp. 223-249; Ruth Katz Crispin, “¡Qué verdad revelada!”: The Poet and the Absent Beloved of Pedro Salinas’ “La voz a ti debida”, “Razón de amor” and “Largo lamento”, Revista Hispánica Moderna, Jun., 2001, Año 54, No. 1 (Jun., 2001), University of Pennsylvania Press, pp. 108-125; C.E. Peragón López, Algunas notas sobre la proyección literaria en el epistolario de Pedro Salinas a Katherine Whitmore, Revista de Literatura, LXVI, 132 (2004), pp. 465-484; Montserrat Escartín Gual, Pedro Salinas, una vida de novela, Ediciones Cátedra, Madrid 2019, pp. 123-226.

[9] P. Salinas, La voce a te dovuta, cit., XII, p. 41, v. 3.

[10] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it. di G. del Bo, il Saggiatore, Milano 1997, p. 421.

[11] P. Salinas, La voce a te dovuta, cit., XLV, pp. 143 e 145.

[12] Id., Il corpo, favoloso. Lungo lamento, a cura di V. Nardoni, Passigli Editori, Firenze 2015, p. 83.

[13] Ivi, p. 187.

[14] Id., Cartas a Katherine Whitmore (1932-1947), cit., p. 245.

Joë Bousquet, Il gioco della vita

Avere presso di sé degli amici è l’augurio di conoscere degli uomini
a cui si possa mostrare il proprio cuore senza pericolo.

(J. Bousquet)

Jean Dubuffet (1901-1985) è considerato oggi uno dei maggiori pittori del XX secolo, iniziatore e teorico dell’Art Brut. La sua prima, sfrontata, mostra personale, di dipinti e disegni stravaganti, si svolse dal 20 ottobre al 18 novembre 1944 presso la Galerie René Drouin di Parigi. Grazie a Jean Paulhan, il “playboy de l’art moderne” (André Pieyre de Mandiargues), che aveva conosciuto nel gennaio dello stesso anno, incontrerà a Carcassonne Joë Bousquet, con il quale stringerà un rapporto di intensa amicizia, come testimonia il volume Il gioco della vita, edito dalla casa editrice Mimesis ed esemplarmente curato da Adriano Marchetti.

Sin dagli esordi artistici, Dubuffet è attratto da coloro che vivono ai margini della società e che sono privi di formazione culturale. Egli, pertanto, propone una visione trasgressiva, “anticulturale” dell’arte, tesa a valorizzare le manifestazioni grafiche dei popoli primitivi e la produzione istintiva e spontanea degli artisti di strada, dei graffitisti, dei bambini e dei pazzi.

Bousquet resta affascinato da tale inusuale linguaggio figurativo, estraneo ai circuiti dell’arte tradizionale. Il poeta di Carcassonne, in controtendenza rispetto all’opinione degli specialisti e dei critici di professione, dell’epoca, riconosce immediatamente in Dubuffet un artista originale, geniale, mosso da una pressante e autentica tensione emotiva, da una naturale creatività febbrile: “La pittura, grazie a lei, rompe con l’attrazione. Si lancia – mandando in frantumi una vetrata” (p. 52). E ancora: “Lei è il più grande pittore di questo tempo. […] Ogni colore è un’espressione minerale dell’oscurità sotterranea. Un solo sguardo su una tela di Dubuffet fornisce la prova che il pittore ha insanguinato le proprie dita su colori che lasciava allo stato vergine di minerali, che si rifiutava di decalcare” (p. 99).

Intimamente afflitto per essere “un individuo fuori-natura e condannato a fare l’esperienza d’una assurdità biologica” (p. 82), Bousquet si rifugia nella seducente arte ancestrale di Dubuffet, rinvenendo in essa conforto ed evasione, ma soprattutto spunti fecondi per la propria scrittura introspettiva e onirica. Anzi, il sogno recondito di Bousquet, a partire dalla metà degli anni Quaranta, è quello di “scrivere come dipinge Jean Dubuffet”, di raccontare attraverso le parole quel che Dubuffet rappresenta attraverso la propria oltraggiosa arte visiva: “Perché […] è stato scelto lei per costringermi a non vedere altro che immagini, segni da decifrare nei fatti che mi avvolgono e mi rendono spesso la vita così greve, così greve?” (p. 55).

Nella sua tarda produzione letteraria, il poeta di Carcassonne sposa quindi appieno lo “stile Dubuffet”: “Il bambino che disegna riserva alle sue figure i caratteri del segno. A malapena esce da sé: teme che una rappresentazione giunga, da fuori, a contrastare quella che la sua immaginazione può formare: come se gli sembrasse che i colori scelti non potrebbero apparire in due luoghi alla volta. Scorgo in me questa intuizione di bambino, di primitivo, di folle: nulla di ciò che si manifesta nel mondo sensibile non può essere ritenuto come affatto inesistente. Ogni colore è un certo indizio, una certa profondità minerale: un’espressione sotterranea” (p. 108).

Dubuffet, che in quel periodo è fortemente osteggiato per la sua innovativa produzione artistica e per l’uso di materiali non ortodossi, si mostra compiaciuto e onorato della stima che gli rivolge costantemente Bousquet, al quale dona vari dipinti e a cui dedica il ritratto Joë Bousquet au lit (gennaio 1947), attualmente conservato al Museo d’Arte Moderna di New York: “Le sue lettere mi appassionano al grado più estremo. A mia volta, devo dire che queste lettere redimono tutta la mia vita, le procurano giustificazione, insomma le danno esistenza. E, al di là di tutto, mi sono preziose. Lei arricchisce particolarmente i miei lavori, li dota di un potere straordinario, me li rende magnetizzati, incantati, li tocca con la sua bacchetta e me li restituisce impregnati di vita ed ora eccomi, io stesso, meravigliato! Meravigliato delle mie proprie opere! Che gioia!” (p. 161).

Come si evince dalla presente corrispondenza, tra i due intellettuali si crea non solo un sodalizio affettivo, ma anche un proficuo scambio di idee, trasposte dall’uno sul piano della creazione letteraria, dall’altro sul piano della creazione pittorica: “Pensare che siamo amici è per me un grande principio di orgoglio. Ed ho bisogno di orgoglio come altri hanno bisogno di libertà, di pace”, gli confessa apertamente Bousquet in una lettera del 5 ottobre 1945 (p. 67). Utilizzando lo stesso registro comunicativo e relazionale, Dubuffet si rivolge all’amico infermo: “Che interlocutore meraviglioso è lei! Che compagno di squadra per danzare a due! Costruisco il violino e lei lo suona, rimango interdetto, stupefatto nel sentirla dare vita e parola al mio violino” (p. 169).

Attraverso questa preziosa corrispondenza, si fa strada nei due autori una serrata critica alla cultura imperante nell’immediato dopoguerra. Bousquet non lesina frecciate acuminate alle teorie dell’esistenzialismo in voga (“Che m’importano le ambizioni smisurate dei metafisici e dei teologi!” [p. 101]), mentre Dubuffet, da sempre ostile alla cultura “ufficiale”, esprime con tono perentorio la propria singolare e irriverente Weltanschauung: “Sempre più m’invade il sentimento per cui l’arte – voglio dire la vera arte, la vera creazione d’arte – comincia dove cessano le idee e credo che la grande aberrazione europea sia stata – e resti – quella di mirare ad opere d’arte (o di poesia) nutrite d’idee. Ma detesto le idee; le ritengo talmente vuote! Voglio dell’arte acefala” (p. 181).

Carla Stroppa, Gli spostati

È buio il mattino che passa / senza la luce dei tuoi occhi.
(Cesare Pavese, 30 marzo 1950)

“È difficile amarsi se nessuno ti rimanda l’immagine…”. È una delle celebri frasi del meraviglioso film in bianco e nero “Angel-a” (2005) del regista francese Luc Besson. La scena è poetica ed emozionante: André (Jamel Debbouze) e Angel-A (Rie Rasmussen) sono allo specchio. André, disadattato e impacciato, non riesce ad esprimere i propri sentimenti all’avvenente e statuaria Angel-A. Incespica con le parole, abbassa lo sguardo, per timidezza e per il troppo amore represso. Angel-A, amorevolmente lo sostiene e lo esorta a comunicare i propri sentimenti e a liberare la propria anima, perché soltanto nell’amore corrisposto l’io si sente “a casa”, presso di sé, al riparo dai dardi del tempo e in accordo col mondo. La scena è suggestiva, emblematica e potrebbe fungere da “metafora cinematografica” per il bel libro della psicoanalista junghiana Carla Stroppa, edito da Moretti & Vitali, Gli spostati. Vivere senza amore.

Che ne è infatti dell’anima in una vita “senza amore”? Che ne è dell’Io che non è riconosciuto da un Tu e che non è visto dal suo sguardo? Che ne è della psiche smarrita e scoraggiata nel “labirinto della solitudine”, parafrasando Octavio Paz? E cosa dire di un corpo inerme, che non conosce il calore di un abbraccio o la vibrazione di una carezza, ma che si strugge nel desiderio di poter accedere al corpo dell’altro? Non è una questione irrilevante o di poco conto, da un punto di vista esistenziale o psicologico, bensì una questione che attiene al fondamento originario del nostro “stare al mondo”, all’equilibrio o alla stabilità del soggetto, dal momento che, come ricorda Sartre ne L’essere e il nulla: “È questo il fondo della gioia d’amore, quando c’è: sentirci giustificati d’esistere” (p. 421).

L’articolato e approfondito saggio di Carla Stroppa tenta di rispondere a tali domande, facendo leva su una solida competenza psicoanalitica: “‘Spostati’ è il termine che magnetizza il ricordo di tante persone incontrate in analisi che, pur nella differenza delle loro storie e delle loro personalità condividono un sentimento di estraneità e di mancanza di amore. Stanno male nel posto in cui vivono, la famiglia, il lavoro, la società. Si sentono fuori, spostati appunto dal centro palpitante di se stessi e del mondo” (p. 13). L’assenza d’amore, la “ferita dei non amati”, per dirla con Peter Schellenbaum provoca un perturbante, penoso e avvilente sentimento di smarrimento e spaesamento, una mancanza di “mondo” e di possibilità. Gli “spostati” sono privi di coordinate vitali, arrancano nei gesti e nei movimenti e “non riescono nemmeno più a immaginare di poter vivere aderenti al loro piano di autenticità” (p. 25). In una situazione di tale fattura, la speranza cede il posto inesorabilmente alla disperazione, al “sole nero”, descritto lucidamente dalla filosofa francese Julia Kristeva.

Per avvalorare la propria tesi interpretativa, Carla Stroppa ricorre all’insegnamento di Jacques Lacan: “il soggetto si istituisce come tale quando è guardato dallo sguardo di un Altro. È nello sguardo di un altro che l’Io viene alla luce, letteralmente fotografato da tale sguardo” (p. 30). E aggiunge: “non essere visti e riconosciuti è un vero e proprio trauma: è la radice tentacolare dalla quale nascono i blocchi e le deformazioni della personalità” (ibid.). Difatti: “la psiche orfana d’amore e di riconoscimento essenziale non riesce a stare al passo con l’Io, lo confonde, barcolla, annaspa in struggente ricerca di un’altra centratura” (p. 37). Perché: “Se manca l’amore, la forza dell’eros che connette, collega, riunisce, è la vita stessa a mancare anche quando il pensiero svolge la sua parte” (p. 50).

Per attenuare la “malattia mortale”, quel sentimento di vuoto asfissiante che afferra tutto il nostro essere e ci debilita, privandoci di “slancio vitale”, è di aiuto, secondo Carla Stroppa, la letteratura: “La letteratura è sempre un secondo mondo che in parte compensa la povertà e la mancanza di senso del primo, aprendo il cuore e la mente al possibile” (p. 39); “La grande letteratura ha sempre soccorso l’individuo che cerca di connettersi con l’anima del mondo, per individuare il riflesso di sé nell’arazzo complessivo che la psiche ha tessuto in tempi e spazi differenti. Certo le pagine scritte non sostituiscono lo specchio d’affetto e di calore che possono offrire le relazioni vive e vere con le persone presenti nella vita di tutti i giorni. Certo che no, tuttavia se quelle persone mancano o lo specchio che offrono è deformante, occorrerà cercare altrove il riflesso di sé” (p. 61).

La storia della letteratura, in altre parole, è un labile palliativo, un’effimera consolazione, che trasfigura in arte l’urlo strozzato dell’anima, un modo per resistere alla vita, nonostante la “scissione intrapsichica”. Guardate in trasparenza, “controluce”, le opere d’arte non sono altro che la manifestazione fenomenica di una mancanza d’amore, un modo, l’unico che abbiamo, per mitigare la ferita del desiderio infranto, del sogno irrealizzato.

Carola Barbero, Addio

Prima del triste e difficile addio / non dire che non ci sarà un altro incontro. / Ho il dono segreto e strano / di farmi da te ricordare. // In un altro paese, nell’esilio lontano / un tempo, quando verrà il tempo, / ti ripeterò con un’unica allusione, / un verso, un moto della penna. // E tu leggi come il pensiero mi ha ridato / e le tue parole di un tempo e l’ombra, / guarda di lontano come ho trasfigurati / questo giorno o quello appena trascorso. // Quale altro incontro vuoi per noi? / Con un unico verso ti restituisco / i tuoi passi, inchini, sguardi, parole – / di più da te non mi è dato.

(Nina Berberova)

E in ultimo ti dirò: – Addio, / e non promettermi amore. / Perderò la ragione. O troverò / la sublime serenità della follia. // Come mi hai amato? Pregustando / l’offesa della fine. Ma non è questo… / Come mi hai amato? Offendendo i principi / dell’amore. Ma in modo così goffo… // Crudeltà del fallimento, io / non ti perdono. Vivo, cammino, / vedo il bianco mondo, / ma il corpo mio è deserto. // La mente vorrebbe ancora un piccolo / lavoro. Ma son deboli le mani. / E uno sciame di odori e di sapori / in volo sghembo si allontana da me.

(Bella Achmadulina)

Il tema dell’addio costituisce un elemento cruciale nell’ambito della storia dello “spirito”, indipendentemente dalle singole culture o dalle modalità di rappresentazione artistica utilizzate: pittura, letteratura, cinema, canzone, ecc. Consapevole di questa lampante, ma mai scontata evidenza, la filosofa Carola Barbero, offre ai lettori italiani un agile, chiaro, suggestivo volume dedicato ad un’esperienza-limite “universale” – quella dell’addio – patita nella carne e nell’anima da ogni singola esistenza, come irrimediabile (talvolta mortale), lesione. Cosa accade infatti a chi resta? Che ne è di chi resta dopo un abbandono? In quale mondo si ritrova a vivere colui che ha subìto un’incomprensibile e repentina separazione? Qui la ragione vacilla, barcolla, cioè non trova appigli o sostegni, perché il cuore fa troppo male: “sanguina e brucia come una piaga insanabile”, affermerà il pittore norvegese Edvard Munch.

A mo’ di esempio, analizziamo brevemente qualche frame cinematografico, per tentare di capire se la “settima arte” possa aiutarci a stabilire un nesso caratterizzante il vissuto dell’addio, facendo riferimento en passant a: Film bianco di Krzysztof Kieślowski (1994), Eternal Sunshine of the Spotless Mind di Michel Gondry (2004), Cashback di Sean Ellis (2006) e a Un amour de jeunesse di Mia Hansen-Løve (2011). Cosa accomuna queste trame narrative, apparentemente distanti e diverse, se non la messa in scena di una profonda solitudine e di un ineffabile dolore, conseguente ad un distacco improvviso e inatteso?

Nel primo film, il protagonista polacco Karol, perdutamente innamorato della sua Dominique, la implora e la insegue con affanno, mentre lei cinica, gli mostra totale indifferenza, spietato disprezzo e, anzi, sadico compiacimento per la sofferenza inflitta. Nel secondo caso, Joel abbandonato da Clementine, nella scena iniziale del film, barba incolta e gesti lenti, ha difficoltà ad alzarsi dal letto per andare a lavoro. Decide in pieno inverno, nel giorno di San Valentino, di rifugiarsi su una spiaggia deserta: “Oggi è una festa inventata dai fabbricanti di cartoline d’auguri per fare sentire di merda le persone. Non sono andato al lavoro oggi […]. Forse mi sono svegliato solo un po’ depresso…”, dichiara. In Cashback, il giovanissimo Ben, abbandonato dalla sua ragazza Suzy, inizia a soffrire d’insonnia e non si dà pace per un amore infranto; la sua mente ora è tutta rivolta al passato, ai ricordi accumulati, e per tentare di dimenticare non gli resta altro da fare che bruciare le fotografie scattate insieme: “Non pensavo che sarebbe stato simile ad un crash test. Ho schiacciato i freni, e sto slittando verso un impatto emotivo”. Nell’ultimo lungometraggio citato, infine, questa volta è la figura femminile, la quindicenne Camille, a soffrire la dipartita dell’amato Sullivan: “Piango perché sono malinconica. […] L’amore e l’unica cosa che conta per me, la mia sola ragione di vita”.

Ecco, il prezioso libro di Carola Barbero ha l’innegabile merito di descrivere e dettagliare, con rigore speculativo e l’ausilio di esempi concreti, tratti dalla quotidianità, ma anche dalla tradizione poetica, canora, cinematografica, cosa generalmente accade nel copione degli addii, quali sono le dinamiche psicologiche e relazionali che vengono ad attuarsi in una coppia al capolinea di un’esperienza amorosa attraverso delle parole chiave quali: “assenza”, “attesa”, “autoinganno” e così via:

[…] teniamo presente che ciò con cui abbiamo a che fare, in quella camera in penombra, non è un allontanamento momentaneo, bensì un’assenza definitiva, quella di chi se ne è andato/a per sempre. È un’assenza da intendersi come assoluta mancanza di una presenza: ha lasciato il suo odore, i vestiti appesi agli attaccapanni, lo spazzolino in bagno e il libro aperto sul comodino. C’è tutto tranne lui/lei (p. 40).

E ancora:

Le stanze della nostra vita sono rimaste di colpo vuote per quell’amore che è andato via. La voce rimbomba e sulle pareti ci sono i segni dei quadri di un tempo appesi. Tutto è diventato freddo, anonimo, spoglio. Semplicemente brutto. Ci sediamo un momento – per terra, perché le sedie non ci sono più –, chiudiamo gli occhi e, inspirando molto lentamente, proviamo a ricordare che cosa c’era prima (p. 169).

Carola Barbero propone di affrontare a viso aperto il processo di “elaborazione del lutto”, al fine di acquisire una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie capacità e potenzialità, e al tempo stesso di dotarsi di una strategia di autodifesa per contrastare i fantasmi ossessivi del passato. L’importante, secondo la filosofa torinese, è confrontarsi con la realtà concreta, non con le illusioni o i desideri, frutto della nostra fervida immaginazione, che oltrepassano naturalmente (ma arbitrariamente) l’effettualità di ciò che è stato, verso ciò che, idealmente, sarebbe potuto essere o avremmo voluto fosse stato. Soltanto in questo modo, attraverso un’analisi lucida della situazione oggettiva, il soggetto si sottrae al turbine impetuoso e irrazionale dell’emotività, e riparte da sé, avendo sé stesso come saldo baricentro del proprio percorso esistenziale.

Smetteremo di rifugiarci nella pazzia quando riusciremo finalmente a capire qualcosa, quando proveremo a mettere insieme i pezzi staccati e/o dimenticati della nostra vita passata e di quella presente, quando ci impegneremo nel tentativo di dare un senso alle sofferenze e alle delusioni, quando arriveremo a perdonarci o a mandarci al diavolo. E con un sorriso permetteremo ai nostri occhi e a quelli di chi abbiamo accanto di vedere qualcosa di diverso. Non più i muri che abbiamo costruito un’incomprensione dopo l’altra, ma il sole o le nuvole che ci sono dietro, che profumano di vento o di pioggia, della vita, la nostra (p. 156).

Questa è la strada indicata dalla scrittrice torinese, che fa leva sull’abilità pratica, intesa come phronesis, di non lasciarsi assorbire o travolgere dalle “pene del cuore”, ma di saper gestire, razionalmente il “mal d’amore” e dunque il tumulto violento delle passioni. Nonostante lo tsunami emotivo e il crollo sequenziale di tutte le certezze, l’esistenza può ricominciare da sé per scrivere un nuovo, avvincente capitolo della propria avventura nel mondo. È questa in fondo la virtù: quella di rialzarsi temprati dopo la sconfitta e poi, con passo sereno, riprendere a vivere con leggerezza:

Rimorsi e rimpianti arriveranno certo, come le onde grigie schiumose seguono la tempesta sul mare. E noi saremo lì ad aspettarli, con la mente lucida e fiera di chi sa cosa voglia dire avere fatto un pezzo di strada (p. 176).

addio

Andrea Pomella, L’uomo che trema

Leggendo lo splendido romanzo autobiografico di Andrea Pomella, recentemente pubblicato dalla casa editrice Einaudi (settembre 2018), ho ripensato spesso ad altri testi simili che presentano lo stesso afflato emotivo (pathos) e che sorgono da una medesima esigenza psicanalitica-lenitiva (la scrittura come “cura dell’anima”, “mezzo di liberazione”, “bisogno di consolazione”). Mi sovviene alla memoria, ad esempio, Le parole per dirlo di Marie Cardinal o Una mente inquieta di Kay Redfield Jamison, senza voler scomodare i celeberrimi Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa o Al culmine della disperazione di Emil Cioran. Cosa accomuna questi testi? Sono semplici racconti inventati, storie romanzate, sterili esercizi di narrativa introspettiva o piuttosto l’ultima àncora di salvezza (per l’autore) per sopportare l’insostenibile peso di essere al mondo, schiacciati e oppressi dalla “coscienza infelice”, da un ineffabile tormento interiore?

«Da dove viene questo sole nero?», si chiedeva la psicanalista bulgara Julia Kristeva, «Da quale galassia insensata i suoi raggi invisibili e pesanti mi inchiodano al suolo, al letto, al mutismo, alla rinuncia?» (Sole nero, Donzelli, p. 7). Anche Pomella, intimamente accecato dai raggi oscuri del Sole nero, e dunque impossibilitato a stabilire un contatto positivo con il mondo in termini di apertura e possibilità, cerca di rispondere a tale interrogativo, analizzando attraverso la scrittura i motivi alla base della propria intima insofferenza e ripercorrendo le tappe salienti della propria esperienza biografica. In maniera assolutamente lucida, Pomella riconosce che: «Soffro di questa malattia che la comunità scientifica definisce sommariamente depressione maggiore da quando ho coscienza del mondo, da quando cioè ho occhi e cuore per decifrare la realtà che mi circonda, perciò direi dalla più tenera età» (p. 7). E ancora:

L’origine profonda della mia sofferenza è radicata in me, nel mio essere, attraverso il corpo e la psiche. Il male non è estraneo a me, non è un batterio che è stato inoculato in me, un germe che prima di essere ospitato all’interno del mio organismo possedeva vita propria. Non esiste una causa. Non il padre che mi è mancato, e neppure l’infanzia vissuta in un’abietta precarietà, bensì una deformazione intellettiva, organica, una disposizione di natura. Io sono l’orso, io sono la minaccia, io sono il male di cui soffro (p. 24).

Se è vero che l’Autore soffre di una Stimmung depressiva congenita, e che quindi vi è una predisposizione malinconica innata (fisiologica), è altrettanto vero che durante la sua infanzia, quando il bambino necessita di modellare e consolidare la propria personalità, avendo come costante punto di riferimento il Padre, avviene una deflagrazione improvvisa, uno sconvolgimento inatteso che innesca una reazione a catena devastante, uno tsunami psichico ed emotivo. All’età di sette anni infatti, Pomella percepisce il “crollo” del proprio mondo-ambiente, il venir meno dell’unità familiare, e dunque la “separazione”, la “scissione”, la “lacerazione”, la “ferita”, causata dall’abbandono del padre del contesto familiare: «Il padre che mi abbandonò in favore della donna di cui si era innamorato, e la madre che per temprarmi alla vita mi mostrò l’aspetto duro e avvilito della realtà umana: questi furono i principali detonatori della mia malattia» (p. 36).

Avendo vissuto la repentina e insanabile ferita dell’“abbandono”, Pomella decide di recidere volontariamente qualsiasi contatto con il padre, confidando sul supporto esclusivo della figura materna: «Eppure fui io a prendere la decisione di rinunciare a lui, e la presi consapevolmente: decisi di non avere un padre, d’infliggermi la mutilazione, di farmi bastare la madre. Così, dall’età di sette anni, non ho più voluto frequentare mio padre, ho rinunciato a esserne figlio, l’ho rinnegato» (p. 37); «Da allora ho vissuto come un orfano, convinto che mio padre fosse morto, e ben presto anche lui dev’essersene convinto, tant’è che ha smesso di aspettarmi fuori dalla scuola, ha smesso di telefonarmi, di spedirmi regali a Natale e al mio compleanno: ben presto il padre abbandonato ha accettato l’idea di aver perduto il figlio» (p. 39).

Afflitto da una depressione sempre più acuta, in età adulta, blandamente sedata dagli psicofarmaci e dalle amorevoli cure della moglie Grazia e dai giochi del piccolo Mario (suo figlio), Pomella si interroga incessantemente se non sia stato proprio la sua decisione di abbandonare il padre ad aver cronicizzato la sua condizione infelice, caratterizzata da notti insonni e crisi di panico e soprattutto dalla carenza di autostima e fiducia di sé: «La mia maledizione sta nel fatto che, per raggiungere ciò a cui aspiro, mi occorre il triplo della fatica che occorre solitamente a un povero cristo non maledetto. Io – che sono maledetto – convivo con la fatica, una fatica disumana, bestiale, una fatica che mi toglie il gusto delle cose. Credo che la mia maledizione sia la maledizione di Sisifo che spinge il masso. Solo che a volte io non mi sento Sisifo. Mi sento il masso» (pp. 33-34); «Nelle mie vene scorre solo il filo di energia che serve a tenermi in vita, per il resto sono niente più che una pelle di serpente, il brandello organico di una creatura arresa» (p. 51); «La paura che ho di me stesso è […] collegata alla profonda disistima che nutro nei miei confronti. Disistima intellettuale, fisica, caratteriale, pratica. Io disistimo la mia ampiezza di pensiero, disistimo il mio aspetto, il mio corpo, il mio temperamento, la mia capacità di far fronte ai problemi della vita quotidiana» (p. 151).

Di fronte alla percezione del Nulla, del Nulla assoluto che abita il cuore e la mente, della “notte oscura” che offusca l’anima e svilisce lo slancio vitale sino ad annullare la “volontà di vivere”, a nulla vale il trattamento analgesico farmacologico proposto dalla moderna psichiatria: «L’antidepressivo che mi ha prescritto il medico psichiatra non ha alcun effetto sull’autostima, agisce in superficie, leviga le asperità più visibili, cura i difetti conclamati, ma non arriva più a fondo» (p. 28). E ancora:

Il medico psichiatra non ha idea di quanto vasto e multiforme sia l’oceano del mio mare, di quante leggendarie bestie marine vi dimorino, per lui la mia depressione maggiore non è che un piccolo stagno in tempesta. Ma del resto non facciamo delle sedute di psicanalisi. Non è suo compito sviscerare la mia psiche, portare alla luce il mio subconscio. Il suo compito è trovare la giusta proporzione chimica, il trattamento più adeguato a togliermi dalla testa le idee inconsulte, per obnubilare un poco la visione della realtà che negli ultimi tempi si è fatta in me così netta, per rendermi quel poco di ubriachezza necessaria a vivere in sintonia con gli altri esseri umani (p. 51).

A soccorrere Pomella, dalle ferite sanguinanti della propria esistenza scissa, dalla palude stagnante di giorni vuoti, senza senso, come sempre accade è la magia dell’amore. Questa volta è l’amore innocente del figlio che inconsapevolmente salva il padre dalle spire perverse di un dolore abissale, che vaneggia talvolta un suicidio liberatorio. Il piccolo Mario, ingenuamente, chiede di conoscere il nonno: «Per Mario conoscere il nonno sconosciuto è poco più che una curiosità. Per me, o meglio per il bambino che c’è ancora in me, è uno sconquasso totale» (p. 49). A distanza di molti anni, Pomella accantona ogni timore e qualsivoglia sentimento di rancore verso il padre e decide di esaudire il sogno del bambino. L’incontro si rivelerà una gioia immensa per il piccolo Mario e un’occasione per Pomella per riappacificarsi con la vita, un’opportunità per ritrovare se stesso ed un labile equilibrio nel suo faticoso cammino nel mondo:

Lui è lì, da qualche parte, dietro la porta. Ho passato i miei ultimi trentasette anni a contorcermi nel pensiero di tutto il male che quest’uomo mi ha procurato. Il mio carattere oscuro e saturnino, la mia malattia, l’inettitudine, l’asprezza dei miei comportamenti, la misantropia, la grana sottile della mia pelle, la mia visione del mondo, tutto dipende da questo, e ora questo è dietro la porta, con le mani in tasca, il collo incassato tra le spalle, gli occhi rossi, lucidi, un sorriso così docile e remissivo che tutto implode in un istante. La mia gigantesca stella maligna collassa verso il proprio centro. Dopo un millennio di tempeste astrali, l’universo torna in quiete (p. 179).

POMELLA

Christian Kuate, Negro. Lettera ad una madre

Nessuno attende lo straniero. Lo straniero è il solo ad attendere.
(E. Jabès)

In Squartamento, opera del periodo francese pubblicata nel 1979, l’apolide Emil Cioran scrive: «Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo». Il volume pubblicato dal giovane filosofo camerunense Christian Kuate (Negro. Lettera ad una madre, Edizioni Lìbrati, 2018) rispecchia in pieno il monito provocatorio e impertinente del pensatore romeno-parigino: è un libro-ferita, un pugno allo stomaco, uno schiaffo al perbenismo occidentale, e ai suoi pseudo valori di solidarietà, libertà, uguaglianza e democrazia. Negro è un libro testimonianza, autobiografico che descrive la condizione (ai limiti dell’umano) in cui è costretto a vivere un ragazzo extracomunitario. Non è un saggio filosofico (astratto), che tematizza, in generale, la condizione complessa dello straniero o dell’esiliato, ma il racconto in prima persona di insulti, offese, soprusi subiti nella quotidianità della propria esistenza. Se questo è un uomo, verrebbe da dire con Primo Levi, leggendo ogni singola pagina di questo volume intenso, appassionato e appassionante, scritto da un giovane che giunge in Italia pieno di speranze, sogni e illusioni, e che invece si ritrova a vivere, in virtù del colore della sua pelle, sempre ai margini, emarginato, escluso, roso dai morsi della miseria e della povertà: «… qui in Italia, tempio di Dio, sono povero come un topo in sacrestia» (p. 18).

Christian Kuate giunge in Italia per studiare filosofia all’Università di Trento. È un giovane volenteroso e ambizioso che fugge dalla corruzione politica del proprio paese e cerca riparo per il proprio futuro in Europa. Arriva in Italia, perché crede fermamente nei valori della “civiltà” occidentale (la libertà, il rispetto, l’uguaglianza dei diritti), e soprattutto col sogno di potersi realizzare (trovare una casa, un lavoro e mettere su famiglia). Ben presto però si accorge che esiste uno scarto incolmabile tra la teoria e la realtà, tra ciò che è il mondo ideale dei valori e la situazione concreta della vita reale, e soprattutto che il riconoscimento è sempre (hegelianamente) frutto di una lotta. I diritti sono continuamente l’esito di una amara e faticosa conquista e l’autore perviene alla piena consapevolezza che il principio di uguaglianza, teorizzato dai grandi pensatori, formalmente in vigore “sulla carta”, a conti fatti è solo un principio vuoto senza applicazione pratica: «Non avevo capito che ogni società privilegia prima di tutto i suoi cittadini, e che essere straniero significa essere cittadino di secondo ordine. […] Lo straniero […] è soltanto un bastardo, un indesiderabile» (p. 57).

Nella sua lunga lettera indirizzata alla propria madre, con rimpianto e nostalgia per le proprie origini e la propria terra natia, Christian Kuate illustra i limiti, la falsità e l’ipocrisia del mondo occidentale: «Nella società che ho visto, mamma, ci sono da una parte i privilegiati, dall’altra i diseredati, i sacrificati, gli svantaggiati. […] Sì, mamma, è una società incancrenita dal razzismo, dalle discriminazioni, dagli egoismi, da frustrazioni […] una società che, al contrario di ciò che sbandiera in tutto il mondo, è molto lontana dall’essere un modello di integrazione […] una società ferocemente ostile allo straniero» (p. 61). La disuguaglianza, la discriminazione e l’esclusione divengono manifeste soprattutto con gli stranieri di pelle scura: il “negro”. Il “negro” proveniente dall’Africa è il cittadino di serie B, il sotto uomo: «Non siamo più ai tempi della schiavitù, dove la disumanizzazione di un’intera parte dell’umanità era approvata da testi religiosi e da codici legislativi. Ma, è come se lo fossimo, mamma» (p. 65).

Christian Kuate descrive dettagliatamente le proprie giornate: le difficoltà che incontra per le strade o nei mezzi pubblici, le relazioni, le diffidenze, le porte sbarrate, semplicemente per il colore scuro della sua epidermide: «Ogni giorno, ogni lungo e doloroso secondo della giornata subiamo discriminazioni sulla nostra persona. Viviamo quotidianamente il calvario del corpo estraneo. […] Al posto della stella gialla esibiamo la pelle nera» (p. 78). Il riferimento alla persecuzione nazista del secolo scorso è chiaro ed evidente. Nell’Europa del Ventunesimo secolo, ci troviamo ancora a dover fronteggiare episodi di ignoranza e di razzismo. L’insegnamento della Storia non è stato ancora metabolizzato dalla pseudo civiltà, che per paura ed ignoranza non accoglie, ma respinge, che non include, ma perennemente esclude: «La discriminazione, qui, è come il respiro. Non si sforza, è diventata spontanea, incosciente, normale. È nelle piccole cose della vita, nei banali gesti del quotidiano» (p. 84).

Se è vero ciò, il sogno di un mondo migliore naufraga ineluttabilmente e la fiducia nell’umanità, nella razionalità dell’uomo come patrimonio comune e universale, miseramente fallisce/svanisce. Dopo dieci anni trascorsi in Italia, avendo vissuto sulla propria pelle insulti, angherie, vessazioni, umiliazioni di ogni tipo, il giudizio (o meglio la condanna) di Christian Kuate è inesorabile e senza appello: «Oh cielo! Cosa sono venuto a cercare in Europa? Delle illusioni sicuramente! Vorrei così tanto tornare a casa! Ritornare nel dolce bozzolo familiare! Ritrovare il nostro quartiere malsano e malfamato, così come i miei compagni di gioco, i miei amici d’infanzia» (p. 181); «Sono scappato dalla mia terra per una sete di paradiso, sfortunatamente quest’ultimo mi ha rigettato, non ho potuto integrarmi» (p. 188).

Quel “paradiso” in cui credeva Christian Kuate si è rivelato peggiore dell’inferno. Ma l’inferno (il razzismo) che caratterizza, ancora oggi buona parte della opulenta società occidentale è soltanto il frutto di una incorreggibile miopia e di una stupidità cronica, dilagante, galoppante.

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