È così: la passione amorosa è una maniera di entrare in sintonia con l’altro, anima e corpo, e soltanto con lui o lei. Siamo al di qua e al di là della filosofia.
(André Gorz)
Nella primavera del 2015 iniziai a progettare l’organizzazione di un Convegno internazionale dedicato alla “religiosità atea” di Emil Cioran, da tenersi a Napoli nella primavera o nell’autunno del 2017. Da alcuni anni, ero già in contatto via email con il Prof. Fernando Savater pertanto, in cima alla lista dei possibili relatori, avevo fiduciosamente e ambiziosamente inserito il suo nome. Savater è stato un grande amico di Cioran, su di lui aveva scritto una tesi di dottorato, pubblicata nel 1974 con il titolo “Ensayo sobre Cioran” e, quindi, avrebbe potuto offrire una testimonianza diretta del suo irrequieto e provocatorio pensiero, sempre oscillante tra “Dio e il Nulla”.
Inizialmente Savater mostrò vivo interesse per il mio progetto. Ecco cosa mi scrisse il 9 maggio 2015: “Caro Di Gennaro: grazie per il tuo gentile invito. Accetto con piacere. Se nella primavera del 2017 saremo ancora vivi, ci incontreremo a Napoli. Cordialmente, F. Savater”. Man mano che i mesi passavano però, notavo, senza comprenderne il motivo, che l’iniziale entusiasmo del filosofo spagnolo andava via via scemando. In una email del 4 novembre 2016, mi scrive: “Caro amico, grazie per questo gentile invito. Dal mese scorso ho abbandonato tutte le mie attività pubbliche. Il mio discorso a Milano è stato l’ultimo della mia carriera. Infatti, considero concluso il mio tempo di filosofo ‘coram populo’. Ma novembre 2017 è ancora lontano e Cioran è un autore molto speciale per me quindi, anche se non ti dico che parteciperò, non oso nemmeno dirti di no. Lasciamoci con questo dubbio… cioraniano. Cordialmente, F. Savater”.
Non c’era ancora un “no” definitivo, dunque, ed io nutrivo inconsciamente la forte speranza, che al simposio partenopeo, in quanto “special guest”, lui potesse alla fine partecipare, avendo anche coinvolto tra i partner dell’evento il prestigioso Instituto Cervantes Nápoles. Il 31 gennaio 2017, in piena fase esecutiva, arriva però la risposta conclusiva, che non lasciava adito a interpretazioni o a eventuali spiragli: “Caro amico, grazie per il tuo gentile invito. Ho già rinunciato a tutte le attività pubbliche e ora vivo molto ritirato. Sinceramente non credo che potrò raggiungervi al convegno di novembre, per il quale ti auguro ogni successo. Cordialmente, Fernando Savater”. Enormemente dispiaciuto, accettai amareggiato il diniego, senza capire però le reali motivazioni sottese a una tale scelta. Solo ora, a distanza di quattro anni, ho trovato le risposte che cercavo, nel meraviglioso volume autobiografico “La peor parte. Memorias de amor” (2019), recentemente pubblicato, con la traduzione italiana di Andrea De Benedetti, dalla casa editrice Laterza col titolo “L’amore che resta”.
Dopo aver pubblicato “Contrattempi. Autobiografia di una ragione appassionata”, “L’amore che resta” costituisce il tassello complementare per ricostruire la vita, l’opera e il pensiero dell’antiaccademico Fernando Savater, epigono contemporaneo di Montaigne, Schopenhauer, Nietzsche, de Unamuno e Cioran. Proprio in “Contrattempi”, nel capitolo “21, rue de l’Odéon”, dedicato al pensatore romeno-parigino, leggiamo: “Se c’è una cosa che non perdono a Cioran, non sono le sue velleità hitleriane in gioventù – rabbiose provocazioni di un esteta metafisico che confondeva la ribellione contro il cosmo con il nichilismo politico – quanto il non aver menzionato Simone più affettuosamente nei suoi Cahiers” (p. 232).
Contrariamente all’amico transilvano, Savater decide di dedicare alla propria compagna di una vita (Sara Torres Marrero, affettuosamente soprannominata “Pelo Cohete” per il taglio “punk” dei capelli avuti in giovane età) un intero volume, intenso, emozionante, struggente. L’intellettuale di San Sebastián si confessa senza veli, raccontando i dettagli intimi di una relazione durata 35 anni e che ha plasmato, in maniera indelebile, la sua interiorità e la sua personalità. Nel marzo del 2015 viene diagnosticata alla donna (all’età di cinquantanove anni) un incurabile tumore cerebrale. Seguono nove mesi di “calvario” (tra visite mediche, ospedali e una delicata operazione a Baltimora negli Stati Uniti), una via crucis, che si concluderà nell’ineluttabile epilogo e che condurrà Savater alla perdita irrimediabile di una parte di sé: “da quando è morta, incredibilmente più di quattro anni fa, non c’è stata un’ora in cui io non l’abbia pianta né un giorno in cui non abbia versato lacrime per lei” (p. XII).
Affranto dal dolore, nel pieno del lutto, Savater decide di trasfigurare attraverso la scrittura, sotto forma di parole, l’assordante e ineffabile sentimento di disperazione, al fine di rendere omaggio e mantenere viva la memoria della persona amata. È una necessità impellente, immanente, improrogabile: ripercorrere le tappe di una vita, ricordare gesti, episodi, testimoniando ad altri, anche con aneddoti scherzosi, il senso e l’essenza della complicità e della gioia amorosa vissuta insieme. Savater racconta così del loro incontro in un bar della Facoltà di Filosofia di Zorroaga, della comune passione per il cinema, dei viaggi all’estero, e ci descrive il carattere esplosivo dell’esuberante “Pelo Cohete”. Ma, al tempo stesso, racconta anche dell’improvvisa malattia e del sopraggiungere inatteso del fato avverso che gli provoca, in maniera funesta, una profonda scissione esistenziale:
[…] la verità è che ho lottato per salvarla, ma c’è stato un momento in cui mi sono convinto che era impossibile, e allora – sia maledetto per sempre – ho cercato di salvarmi da lei. Non c’è nulla di più atroce dell’abbraccio dell’agonizzante che cerca di trascinarci con sé nelle ultime profondità, perché questo promette chi ama quando fa veramente sul serio: di non abbandonarti mai. Arriva un momento in cui dobbiamo scegliere se accompagnare fino in fondo la persona amata, ormai in balia del vertiginoso maelström dell’irrimediabile, oppure sopravvivere. E io sono sopravvissuto” (p. 32).
Le ultime pagine del libro, contengono delle foto, delle istantanee, che ritraggono la coppia in momenti di felicità. L’amore scrive Savater “[…] somiglia alle fotografie della vecchia Polaroid, dove le figure apparivano poco alla volta sulla carta che agitavamo con impazienza mentre soffiavamo per asciugarla più in fretta: inizialmente sfocate, confuse, poi lentamente distinte fino a raggiungere la massima nitidezza… o fino a convincerci che avevamo rovinato lo scatto. L’amore si rivela” (p. 58). Attraverso la lettura di questo incantevole libro il lettore resterà ammaliato dalla descrizione poetica di un amore profondo, autentico, sincero. Tale testimonianza nasce infatti da una richiesta esplicita di “Pelo Cohete” e Savater sente il dovere di non poter non adempiere con responsabilità a una promessa, come ultimo gesto del proprio grande amore:
Uno dei primi giorni del nostro calvario, all’ospedale di Pontevedra, appena conosciuta la diagnosi il cui esito fatale ancora ignoravamo ma che già presagivamo capace di separarci, abbracciati sul tuo letto sfatto, mi dicesti: “Se tu non lo racconti, nessuno saprà che cosa siamo stati l’uno per l’altro”. Non sono sicuro di poterlo raccontare, amore mio, temo di non essere all’altezza di una tale sfida, ma capisco che sarebbe miserabile, da parte mia, non provarci nemmeno. Ecco dunque che cosa mi resta da fare (p. XIII).
