Avere presso di sé degli amici è l’augurio di conoscere degli uomini
a cui si possa mostrare il proprio cuore senza pericolo.(J. Bousquet)
Jean Dubuffet (1901-1985) è considerato oggi uno dei maggiori pittori del XX secolo, iniziatore e teorico dell’Art Brut. La sua prima, sfrontata, mostra personale, di dipinti e disegni stravaganti, si svolse dal 20 ottobre al 18 novembre 1944 presso la Galerie René Drouin di Parigi. Grazie a Jean Paulhan, il “playboy de l’art moderne” (André Pieyre de Mandiargues), che aveva conosciuto nel gennaio dello stesso anno, incontrerà a Carcassonne Joë Bousquet, con il quale stringerà un rapporto di intensa amicizia, come testimonia il volume Il gioco della vita, edito dalla casa editrice Mimesis ed esemplarmente curato da Adriano Marchetti.
Sin dagli esordi artistici, Dubuffet è attratto da coloro che vivono ai margini della società e che sono privi di formazione culturale. Egli, pertanto, propone una visione trasgressiva, “anticulturale” dell’arte, tesa a valorizzare le manifestazioni grafiche dei popoli primitivi e la produzione istintiva e spontanea degli artisti di strada, dei graffitisti, dei bambini e dei pazzi.
Bousquet resta affascinato da tale inusuale linguaggio figurativo, estraneo ai circuiti dell’arte tradizionale. Il poeta di Carcassonne, in controtendenza rispetto all’opinione degli specialisti e dei critici di professione, dell’epoca, riconosce immediatamente in Dubuffet un artista originale, geniale, mosso da una pressante e autentica tensione emotiva, da una naturale creatività febbrile: “La pittura, grazie a lei, rompe con l’attrazione. Si lancia – mandando in frantumi una vetrata” (p. 52). E ancora: “Lei è il più grande pittore di questo tempo. […] Ogni colore è un’espressione minerale dell’oscurità sotterranea. Un solo sguardo su una tela di Dubuffet fornisce la prova che il pittore ha insanguinato le proprie dita su colori che lasciava allo stato vergine di minerali, che si rifiutava di decalcare” (p. 99).
Intimamente afflitto per essere “un individuo fuori-natura e condannato a fare l’esperienza d’una assurdità biologica” (p. 82), Bousquet si rifugia nella seducente arte ancestrale di Dubuffet, rinvenendo in essa conforto ed evasione, ma soprattutto spunti fecondi per la propria scrittura introspettiva e onirica. Anzi, il sogno recondito di Bousquet, a partire dalla metà degli anni Quaranta, è quello di “scrivere come dipinge Jean Dubuffet”, di raccontare attraverso le parole quel che Dubuffet rappresenta attraverso la propria oltraggiosa arte visiva: “Perché […] è stato scelto lei per costringermi a non vedere altro che immagini, segni da decifrare nei fatti che mi avvolgono e mi rendono spesso la vita così greve, così greve?” (p. 55).
Nella sua tarda produzione letteraria, il poeta di Carcassonne sposa quindi appieno lo “stile Dubuffet”: “Il bambino che disegna riserva alle sue figure i caratteri del segno. A malapena esce da sé: teme che una rappresentazione giunga, da fuori, a contrastare quella che la sua immaginazione può formare: come se gli sembrasse che i colori scelti non potrebbero apparire in due luoghi alla volta. Scorgo in me questa intuizione di bambino, di primitivo, di folle: nulla di ciò che si manifesta nel mondo sensibile non può essere ritenuto come affatto inesistente. Ogni colore è un certo indizio, una certa profondità minerale: un’espressione sotterranea” (p. 108).
Dubuffet, che in quel periodo è fortemente osteggiato per la sua innovativa produzione artistica e per l’uso di materiali non ortodossi, si mostra compiaciuto e onorato della stima che gli rivolge costantemente Bousquet, al quale dona vari dipinti e a cui dedica il ritratto Joë Bousquet au lit (gennaio 1947), attualmente conservato al Museo d’Arte Moderna di New York: “Le sue lettere mi appassionano al grado più estremo. A mia volta, devo dire che queste lettere redimono tutta la mia vita, le procurano giustificazione, insomma le danno esistenza. E, al di là di tutto, mi sono preziose. Lei arricchisce particolarmente i miei lavori, li dota di un potere straordinario, me li rende magnetizzati, incantati, li tocca con la sua bacchetta e me li restituisce impregnati di vita ed ora eccomi, io stesso, meravigliato! Meravigliato delle mie proprie opere! Che gioia!” (p. 161).
Come si evince dalla presente corrispondenza, tra i due intellettuali si crea non solo un sodalizio affettivo, ma anche un proficuo scambio di idee, trasposte dall’uno sul piano della creazione letteraria, dall’altro sul piano della creazione pittorica: “Pensare che siamo amici è per me un grande principio di orgoglio. Ed ho bisogno di orgoglio come altri hanno bisogno di libertà, di pace”, gli confessa apertamente Bousquet in una lettera del 5 ottobre 1945 (p. 67). Utilizzando lo stesso registro comunicativo e relazionale, Dubuffet si rivolge all’amico infermo: “Che interlocutore meraviglioso è lei! Che compagno di squadra per danzare a due! Costruisco il violino e lei lo suona, rimango interdetto, stupefatto nel sentirla dare vita e parola al mio violino” (p. 169).
Attraverso questa preziosa corrispondenza, si fa strada nei due autori una serrata critica alla cultura imperante nell’immediato dopoguerra. Bousquet non lesina frecciate acuminate alle teorie dell’esistenzialismo in voga (“Che m’importano le ambizioni smisurate dei metafisici e dei teologi!” [p. 101]), mentre Dubuffet, da sempre ostile alla cultura “ufficiale”, esprime con tono perentorio la propria singolare e irriverente Weltanschauung: “Sempre più m’invade il sentimento per cui l’arte – voglio dire la vera arte, la vera creazione d’arte – comincia dove cessano le idee e credo che la grande aberrazione europea sia stata – e resti – quella di mirare ad opere d’arte (o di poesia) nutrite d’idee. Ma detesto le idee; le ritengo talmente vuote! Voglio dell’arte acefala” (p. 181).
