Joë Bousquet, Il gioco della vita

Avere presso di sé degli amici è l’augurio di conoscere degli uomini
a cui si possa mostrare il proprio cuore senza pericolo.

(J. Bousquet)

Jean Dubuffet (1901-1985) è considerato oggi uno dei maggiori pittori del XX secolo, iniziatore e teorico dell’Art Brut. La sua prima, sfrontata, mostra personale, di dipinti e disegni stravaganti, si svolse dal 20 ottobre al 18 novembre 1944 presso la Galerie René Drouin di Parigi. Grazie a Jean Paulhan, il “playboy de l’art moderne” (André Pieyre de Mandiargues), che aveva conosciuto nel gennaio dello stesso anno, incontrerà a Carcassonne Joë Bousquet, con il quale stringerà un rapporto di intensa amicizia, come testimonia il volume Il gioco della vita, edito dalla casa editrice Mimesis ed esemplarmente curato da Adriano Marchetti.

Sin dagli esordi artistici, Dubuffet è attratto da coloro che vivono ai margini della società e che sono privi di formazione culturale. Egli, pertanto, propone una visione trasgressiva, “anticulturale” dell’arte, tesa a valorizzare le manifestazioni grafiche dei popoli primitivi e la produzione istintiva e spontanea degli artisti di strada, dei graffitisti, dei bambini e dei pazzi.

Bousquet resta affascinato da tale inusuale linguaggio figurativo, estraneo ai circuiti dell’arte tradizionale. Il poeta di Carcassonne, in controtendenza rispetto all’opinione degli specialisti e dei critici di professione, dell’epoca, riconosce immediatamente in Dubuffet un artista originale, geniale, mosso da una pressante e autentica tensione emotiva, da una naturale creatività febbrile: “La pittura, grazie a lei, rompe con l’attrazione. Si lancia – mandando in frantumi una vetrata” (p. 52). E ancora: “Lei è il più grande pittore di questo tempo. […] Ogni colore è un’espressione minerale dell’oscurità sotterranea. Un solo sguardo su una tela di Dubuffet fornisce la prova che il pittore ha insanguinato le proprie dita su colori che lasciava allo stato vergine di minerali, che si rifiutava di decalcare” (p. 99).

Intimamente afflitto per essere “un individuo fuori-natura e condannato a fare l’esperienza d’una assurdità biologica” (p. 82), Bousquet si rifugia nella seducente arte ancestrale di Dubuffet, rinvenendo in essa conforto ed evasione, ma soprattutto spunti fecondi per la propria scrittura introspettiva e onirica. Anzi, il sogno recondito di Bousquet, a partire dalla metà degli anni Quaranta, è quello di “scrivere come dipinge Jean Dubuffet”, di raccontare attraverso le parole quel che Dubuffet rappresenta attraverso la propria oltraggiosa arte visiva: “Perché […] è stato scelto lei per costringermi a non vedere altro che immagini, segni da decifrare nei fatti che mi avvolgono e mi rendono spesso la vita così greve, così greve?” (p. 55).

Nella sua tarda produzione letteraria, il poeta di Carcassonne sposa quindi appieno lo “stile Dubuffet”: “Il bambino che disegna riserva alle sue figure i caratteri del segno. A malapena esce da sé: teme che una rappresentazione giunga, da fuori, a contrastare quella che la sua immaginazione può formare: come se gli sembrasse che i colori scelti non potrebbero apparire in due luoghi alla volta. Scorgo in me questa intuizione di bambino, di primitivo, di folle: nulla di ciò che si manifesta nel mondo sensibile non può essere ritenuto come affatto inesistente. Ogni colore è un certo indizio, una certa profondità minerale: un’espressione sotterranea” (p. 108).

Dubuffet, che in quel periodo è fortemente osteggiato per la sua innovativa produzione artistica e per l’uso di materiali non ortodossi, si mostra compiaciuto e onorato della stima che gli rivolge costantemente Bousquet, al quale dona vari dipinti e a cui dedica il ritratto Joë Bousquet au lit (gennaio 1947), attualmente conservato al Museo d’Arte Moderna di New York: “Le sue lettere mi appassionano al grado più estremo. A mia volta, devo dire che queste lettere redimono tutta la mia vita, le procurano giustificazione, insomma le danno esistenza. E, al di là di tutto, mi sono preziose. Lei arricchisce particolarmente i miei lavori, li dota di un potere straordinario, me li rende magnetizzati, incantati, li tocca con la sua bacchetta e me li restituisce impregnati di vita ed ora eccomi, io stesso, meravigliato! Meravigliato delle mie proprie opere! Che gioia!” (p. 161).

Come si evince dalla presente corrispondenza, tra i due intellettuali si crea non solo un sodalizio affettivo, ma anche un proficuo scambio di idee, trasposte dall’uno sul piano della creazione letteraria, dall’altro sul piano della creazione pittorica: “Pensare che siamo amici è per me un grande principio di orgoglio. Ed ho bisogno di orgoglio come altri hanno bisogno di libertà, di pace”, gli confessa apertamente Bousquet in una lettera del 5 ottobre 1945 (p. 67). Utilizzando lo stesso registro comunicativo e relazionale, Dubuffet si rivolge all’amico infermo: “Che interlocutore meraviglioso è lei! Che compagno di squadra per danzare a due! Costruisco il violino e lei lo suona, rimango interdetto, stupefatto nel sentirla dare vita e parola al mio violino” (p. 169).

Attraverso questa preziosa corrispondenza, si fa strada nei due autori una serrata critica alla cultura imperante nell’immediato dopoguerra. Bousquet non lesina frecciate acuminate alle teorie dell’esistenzialismo in voga (“Che m’importano le ambizioni smisurate dei metafisici e dei teologi!” [p. 101]), mentre Dubuffet, da sempre ostile alla cultura “ufficiale”, esprime con tono perentorio la propria singolare e irriverente Weltanschauung: “Sempre più m’invade il sentimento per cui l’arte – voglio dire la vera arte, la vera creazione d’arte – comincia dove cessano le idee e credo che la grande aberrazione europea sia stata – e resti – quella di mirare ad opere d’arte (o di poesia) nutrite d’idee. Ma detesto le idee; le ritengo talmente vuote! Voglio dell’arte acefala” (p. 181).

Joë Bousquet, Lettere a Poisson d’Or

Ammettere che un uomo come me possa amare è rinnegare l’amore
e porre un segno d’infamia sulla bellezza delle donne.
(J. Bousquet)

Nell’ambito della storia della letteratura mondiale, le Lettere a Poisson d’Or, di Joë Bousquet (recentemente apparse in edizione italiana a cura di Adriano Marchetti, presso la casa editrice Moretti&Vitali) costituiscono una perla di inaudita e indescrivibile bellezza, per l’intensità della scrittura, la tensione lirica, l’ammaliante e armoniosa prosa poetica. Al pari delle Lettere a Katherine Whitmore, del poeta spagnolo Pedro Salinas, siamo all’apice di una spiritualità pura, al vertice di un canto mistico, struggente, in cui l’Eros, non trovando pieno sbocco nella realtà concreta della passione carnale, si sublima attraverso il dire malinconico delle parole effimere. È il desiderio muto, strozzato, disperato, di un abbraccio non dato, di una pulsione erotica repressa, di un cuore che palpita inutilmente contro il muro dell’insormontabile impossibilità di essere appagati sul piano affettivo, intimo, emotivo.

Nel luglio del 1937, il quarantenne Bousquet conosce a casa dell’amico James Ducellier la giovanissima Germaine Mühlethaler, che festeggia lì i suoi ventuno anni. Lo scrittore francese, paralizzato dal maggio 1918, si innamora a prima vista della splendida ragazza di origini svizzere, bionda, dagli occhi cerulei, tanto da spedirle immediatamente lettere di appassionato e sincero amore: “Vorrei restituirvi un po’ della luce che avete acceso nel mio crepuscolo” (p. 26), le confessa apertamente nella sua prima lettera del 1° agosto 1937; e ancora, di lì a qualche giorno, l’8 agosto 1937: “Se fossi un uomo giovane, Germaine, vi direi, che appena vi ho vista, vi ho amata” (p. 31).

Bousquet riconosce in Germaine, metaforicamente ribattezzata nel corso delle epistole “Poisson d’Or”, la donna reale che incarna pienamente un enigmatico sogno d’infanzia, relativo a un pesce d’oro, simbolo, a suo dire, del sentimento amoroso: “[…] in questo sogno irrealizzabile, ho reso al mio amore tutta la purezza attinta dal mio cuore alle sorgenti della vita. Vedevo questa giovane ragazza attraverso la luce della mia infanzia. La vedevo nel mio cuore affinché la sua ingenuità, la sua freschezza inventassero con me la vita che ci saremmo dati a vicenda conformandoci alla trasparenza che è solo nel nostro amore…” (p. 40).

Bousquet è affascinato e avvinto dalla bellezza esteriore e dai modi gentili, garbati, della giovane donna. La grazia angelicata di Germaine sconvolge le notti insonni di Bousquet, lasciandogli fantasticare, ad occhi aperti, la magia di un amore possibile, l’oltrepassamento della propria cronica solitudine: “Vi amo, Germaine, ditemi che lo sapete, che volete solo scendere con me in questo amore, conoscerne tutti i segreti che mi fanno battere il cuore” (p. 36); “Io non posso amarvi senza diventare il cuore di tutto ciò che con me esiste. Il mio essere è per voi tutto spirito a furia di essere l’intelligenza di tutto ciò che ci ha avvicinati. Una luce del peso della rugiada si posa nel vento grigio di un giorno profumato, dolce quanto la carne” (p. 38); e ancora: “Il tuo viso, la tua eleganza, tutta la tua silhouette così affascinante avevano invaso i miei occhi ed aprivano a tutto il mio corpo un’occasione di entrare nella vita dei miei sogni” (p. 103).

Nonostante l’amore sia sinceramente ricambiato anche dalla ragazza, e la relazione si prolunghi per ben dodici anni (dal 1937 al 1949), Bousquet è costretto, suo malgrado, a frenare razionalmente, nel corso del tempo, il proprio sconfinato ardore. Conscio di essere impossibilitato nel fisico ad amare una donna, si arrende disilluso e amareggiato di fronte alla situazione limite, oggettiva, della propria insanabile ferita: “Cara Germaine, una ferita come la mia ha distrutto in me le fonti stesse della vita. Per una conseguenza, in certe circostanze, felice, essa ha sprofondato in un blocco di ghiaccio tutto ciò che in me non era spirito, e ho spesso trascinato la mia carne come una palla al piede. Non mi accosto a una donna senza che la mia carne sia come un muro per separarci; e a questa dolorosa fatalità ha fatto eccezione solo la vostra prodigiosa rassomiglianza con un mio sogno” (p. 49).

Dopo aver descritto, in maniera dettagliata e poetica, le dinamiche inconsce e travolgenti dell’Eros, dopo aver cantato l’immagine onirica del sogno amoroso, della bellezza incondizionata della fusione che caratterizza il rapporto d’amore, Bousquet soccombe alla triste e ineluttabile realtà della propria condizione di uomo paralizzato. Lascia pertanto che la vita, beffarda e spietata, compia il proprio de-corso e che Germaine sposi, nell’aprile del 1950, un altro uomo: il poeta e teologo eretico (scomunicato) Ferdinando Tartaglia: “Ormai entri in un’altra vita con tutta la tua e nulla si sciuperà della pura immagine che ho di te. La mia vita è esteriormente una vita di scarto, e non ne voglio altre. Mai crescerò se non volendola tale quale mi è stata inflitta, facendo della sua prova un oggetto di desiderio. Occorreva una visione di purezza e di bellezza e che non smentisse il mio sogno cozzando contro il mio corpo ferito. È fatto, ciò che doveva essere è” (pp. 170-171).

David Le Breton, La vita a piedi

L’uomo, quando non si affida alla benevolenza del sentiero di campagna, cerca vanamente di assoggettare con i propri piani il globo terrestre.
(M. Heidegger)

Se analizziamo i Quaderni di Cioran, i suoi diari intimi apparsi postumi, numerosi sono i passi in cui il pensatore rumeno descrive nel dettaglio i benefici del camminare, a livello fisico e a livello psichico. Afflitto sin dagli anni giovanili da un’acuta malinconia, Cioran scopre nell’attività del camminare non solo un antidoto contro il cafard, ma uno stato di benessere momentaneo, un’esperienza consapevole e fattiva di grazia e di felicità: “La felicità per me è stare all’aperto, camminare”; “Camminare è la mia salvezza”; “Un giorno o l’altro scriverò un Trattato sul camminare”. Su quest’ultimo punto, in particolare, Cioran non manterrà gli impegni auspicati, ma l’argomento relativo all’importanza vitale del camminare resta, in ogni caso, in maniera trasversale, al centro della sua riflessione speculativa, tanto nei diari privati, quanto nelle opere pubbliche, date alla stampa.

Sulla peculiarità e i vantaggi del “camminare” si concentra da sempre la riflessione di un altro autorevole intellettuale: David Le Breton, sociologo e antropologo francese che, dopo aver pubblicato Il mondo a piedi. Elogio della marcia (2000) e Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza (2012) ha pubblicato in anni più recenti La vita a piedi. Una pratica della felicità (2020), da poco apparso per le edizioni Raffaello Cortina, nella traduzione di Paola Merlin Baretter. Riprendendo e approfondendo, in chiave contemporanea, le acute riflessioni dell’americano Henry Thoreau, Le Breton vaglia con acribia e passione i benefici sull’uomo, nel mondo odierno, della prassi naturale, ma “rivoluzionaria”, del camminare: “[…] camminare non è un dovere, bensì un gioco, un artificio per ritrovare la spensieratezza che fu dell’infanzia” (pp. 16-17).

La nostra società, ipertecnologica, esige e propugna dogmaticamente, in quanto valore assoluto e imprescindibile, la velocità del viaggio. È ostile alla lentezza del cammino, della meditazione e della introspezione. Il tragitto è solo un inconveniente da superare, nel più breve tempo possibile, un intermezzo sconveniente compreso tra il luogo di partenza e la meta di arrivo. La riflessione di Le Breton, in controtendenza rispetto al sistema capitalistico occidentale, che svilisce la dimensione umana nell’ingranaggio di un impianto tecnico onnivoro, che ha di mira il mero funzionamento dell’apparato e del divertimento, riabilita quella condotta salubre del camminare lento e disinteressato che abbiamo gradualmente obliato, sotto il peso di una smaniosa idea di progresso, imposta dalla modernità:

Camminare è un’immersione nella sovrabbondanza del mondo, una sete di andare al di là delle apparenze organizzate e asettiche delle nostre città, nelle nostre campagne, dei nostri luoghi di vita abituali, per spingersi quanto più vicino possibile a quel brulichio di vita che abbiamo smesso di vedere a causa delle tecniche che hanno soppiantato la relazione con il mondo e della ripartizione di tutto il territorio attraverso l’urbanizzazione. Camminare significa riportare lo sguardo sull’ambiente, purificandolo dalla routine che non consente più di vedere granché, intorno a sé (p. 114).

Quella di Le Breton è una “rivoluzione” moderata, pacata, in linea con i principi della “decrescita serena”, teorizzati da altri autori come Jacques Ellul, Cornelius Castoriadis e Serge Latouche. L’uomo deve riappropriarsi dei suoi spazi vitali, ascoltare e assecondare serenamente i suoi reali bisogni, non essere un semplice e passivo consumatore di ciò che gli viene proposto dalla società borghese in quanto promessa di una felicità artificiale e fittizia: “Camminare significa esistere, nel senso forte del termine, come la stessa etimologia ci ricorda: ex-sistere, allontanarsi da un luogo fisso, fuggire da sé. Ricorrere ai sentieri, ai cammini significa sfidare i valori cardinali delle nostre società postmoderne” (p. 22); dal momento che “Il camminatore ritrova un mondo premoderno, antecedente alle separazioni” (p. 137).

Ritornando alla natura, camminando lungo sentieri sconosciuti, passeggiando liberamente “a passo d’uomo”, secondo un proprio ritmo sostenibile, l’uomo riscopre il contatto con sé e con il mondo, si riappropria autenticamente della propria identità, percepisce di essere parte integrante del tutto. È una metamorfosi spirituale, che attiene alla radice profonda della nostra esistenza, alla sacralità del nostro stare al mondo, in simbiosi con il creato e gli altri esseri viventi: “Lungo o corto, il cammino è un percorso di guarigione, di riconciliazione con il mondo. Chiudere la porta di casa dietro di sé significa prendere congedo dalle preoccupazioni del passato e riprendere in mano la propria esistenza” (p. 193).

Jean Dubuffet, Piccolo manifesto per gli amatori d’ogni genere

Chi ha detto che ci sono regole, scuole e maestri da seguire nel campo dell’arte? È possibile giungere ad un ideale di bellezza assoluta, universalmente valido? La concezione estetica che si è imposta in Occidente è da considerarsi l’espressione più alta, mai raggiunta nella storia dell’umanità, o piuttosto ogni cultura in una determinata epoca storica, e in un determinato contesto geografico, elabora una propria concezione artistica? Hanno tutte pari dignità o è possibile fare dei raffronti, al fine di pervenire ad una fantomatica classificazione?

Il francese Jean Dubuffet (1901-1985), pittore e scultore, ideatore e teorico dell’Art Brut (arte rozza) ancor prima di dare alle stampe nel 1969 Asphyxiante culture, elabora la propria dinamitarda, esplosiva, insolente, irriverente Weltanschauung estetica, in un meraviglioso scritto del 1946: Prospectus aux amateurs de tout genre, recentemente tradotto in lingua italiana da Alessandra Ruffino per la casa editrice Allemandi. L’edizione italiana, che raccoglie anche alcuni testi inediti, è un piccolo gioiello di luce abbagliante, un tassello imprescindibile, per chi ama la cultura autentica (quella eretica, eterodossa), non allineata alla “cultura” ufficiale, dominante, che pretende sempre di indicare quale sia la strada giusta da seguire per giungere ad una astratta verità universale: “La verità non si lascia circoscrivere, abbracciare per intero con lo sguardo. Se ne possono solo afferrare degli aspetti. E ancora: per lampi” (p.143).

L’anti-idealista Dubuffet non crede, dunque, che possa esistere un ideale di bellezza sovrastorica, eterna, di cui l’Occidente sarebbe, con velleitaria presunzione, l’unica, univoca, verace testimonianza. Secondo l’artista francese, infatti, tutto ciò che è umano cade sotto la scure del tempo, della finitezza, della provvisorietà e della caducità. “Tutto ciò che è umano è mortale” (p. 142): ecco l’assioma inconfutabile e portante, il fulcro nevralgico, attorno a cui si costituisce l’ermeneutica del finito di Dubuffet.

Se è vero ciò, la bellezza è ovunque e in ogni tempo, trasversale ad ogni cultura: “Nelle società semplici e sane, presso i negri d’Africa o d’Oceania ad esempio (almeno fino a quando i marescialli degli zuavi e missionari non arrivano ad abbrutirli) non si fan tanti complimenti come da noi con la pittura o scultura. Qualunque contadinello, a fine giornata, si mette a modellare una statuetta se gliene viene capriccio, senza preoccuparsi di fare prima 10 anni di studi in una scuola di Belle Arti. E bisogna ammettere che il risultato non è così cattivo, dato che tutti i nostri artisti sono pieni di ammirazione per le opere fatte dai negri con tanta inventiva e fantasia” (p. 55).

Dubuffet non è solo un artista innovativo e rivoluzionario (per lo stile insolito, per le tecniche e i materiali utilizzati) nell’ambito della storia dell’arte del Ventesimo secolo ma, ancor di più, un acuto teorico dell’arte, un profondo osservatore ed interprete di questioni filosofiche, psicologiche, antropologiche. Come Lévi-Strauss, Dubuffet riabilita i popoli non civilizzati, le civiltà primitive, non corrotte dall’“asfissiante cultura”, fatta di schemi, concetti, teorie, idee, ma soprattutto pregiudizi. Dubuffet, con Nietzsche, e con spirito dionisiaco, sostiene che non vi sia altra finalità nell’arte se non quella di divertire, emozionare, affascinare, incantare o scandalizzare: “L’arte è fatta solo di ebbrezza e follia” (p. 44); essa “deve sempre un po’ far ridere e un po’ far paura” (p. 62).

L’arte possiede allora un linguaggio proprio, innato, istintivo e a nulla serve frequentare le prestigiose Accademie sparse in giro per il mondo: “Dipingere è come parlare o camminare. Per l’essere umano fare schizzi su qualunque superficie capiti sotto mano, scarabocchiare qualche immagine, è naturale come parlare” (p. 54). L’Occidente ha però trasformato un linguaggio spontaneo e universale, in un sapere specialistico, elitario e settario. È questo l’abominio che macchia, in maniera indelebile, la cosiddetta “civiltà” e che Dubuffet mette a nudo nella sua ricostruzione esegetica.

Come sopperire a ciò? Come salvarci da tutte le forme di cultura colte (filosofia, poesia, musica) che hanno asservito e schiavizzato l’uomo, invece di liberare le sue energie primordiali e vitali? Con la sua scrittura irriverente e ironica, Dubuffet ci insegna che dobbiamo ritornare alla terra, sporcarci le mani, attingere al materiale grezzo, alla fonte pura e oscura della vita, alla linfa germinale, senza voler costruire o ipotizzare altri mondi lontani: “Aspiro a un’arte che sia direttamente connessa alla vita quotidiana, un’arte che prenda avvio da questa vita quotidiana, che sia un’emanazione immediata della nostra vera vita e dei nostri veri umori” (p. 170).

Joë Bousquet, L’ombra di ciò che unisce

Per comprendere pienamente il tono e la specificità dell’amicizia intercorsa tra lo scrittore francese Joë Bousquet e il pittore belga René Magritte basta sfogliare le pagine dense e coinvolgenti di un recente volume magistralmente curato da Arlindo Hank Toska per le edizioni Mimesis: L’ombra di ciò che unisce. Tale volume raccoglie le lettere spedite dal poeta di Carcassonne all’amico artista negli anni 1946-1948, più qualche altra preziosa testimonianza come la Prefazione al catalogo della mostra di pittura Les Maîtres du Surréalisme, svoltasi a Tolosa dall’8 al 24 marzo 1946.

Bousquet, affascinato dalle avanguardie dell’arte contemporanea, considerate una via di fuga privilegiata rispetto alla propria drammatica condizione di infermità fisica, non lesina il proprio entusiasmo e la propria stima rivolgendosi a Magritte: “Tu nutri i miei sogni inviandomi le tue meravigliose collezioni”, gli scrive il 28 luglio 1946 (p. 23), e in una lettera successiva gli confessa apertamente: “i Magritte sono il mio universo” (p. 28).

Siamo nel pieno del secondo conflitto mondiale, quando i due si conoscono. La Germania nazista ha appena invaso il Belgio e l’Olanda e Magritte cerca protezione nell’estate del 1940 nel Sud della Francia, proprio nella cittadina medievale di Carcassonne. Qui incontra e frequenta assiduamente Bousquet nella sua chambre, al numero 54 di rue Verdun. Tra i due nasce un sodalizio intenso, che si protrae intatto nel corso degli anni, basato soprattutto sull’amore sconfinato e disinteressato per la pittura: “Siamo amici e abbiamo scoperto che questa amicizia era solo l’ombra di ciò che unisce le nostre vite”, gli rammenta poeticamente Bousquet (p. 30).

Nel carteggio sono presenti questioni teoriche sui colori, come quella riguardante il “nero eclissi” e il “nero sorgente”, commenti sulle opere pittoriche prodotte da Magritte o considerazioni estemporanee su altri artisti, come Max Ernst e Hans Bellmer. Bousquet, in particolar modo, segue con estremo interesse l’evoluzione artistica del proprio amico, chiedendogli anche ragguagli di carattere economico, circa le sue opere: “Magritte, ti prego, scrivimi. Dimmi a che prezzo mi cederesti le tue tele più recenti, su quali condizioni di pagamento potrei contare” (p. 24).

Magritte ricambia l’amicizia e la fiducia espressa da Bousquet inviandogli disegni, acquerelli o tele ad un prezzo di favore. Una di queste, risalente al 1947, reca come titolo Shéhérazade. Bousquet utilizzerà proprio tale dipinto, che raffigura una “donna-perla”, per “sedurre” una giovane studentessa di Tolosa, Jacqueline Gourbeyre, detta “Isel”, e che sarà la destinataria di un appassionante epistolario tuttora inedito in Italia: Lettres a une jeune fille (Éditeur Grasset).

Cosa unisce Bousquet a Magritte? Cosa accomuna i due autori, teorici e critici al contempo del surrealismo? Ma soprattutto, quali sono gli aspetti che Bousquet ama dell’esperienza artistica di Magritte? Il presente carteggio, grazie anche ad una approfondita Prefazione del curatore, aiuta a sciogliere tali interrogativi. Bousquet, imprigionato, paralizzato nella realtà del proprio corpo, a seguito di una incurabile ferita riportata durante la “Grande Guerra”, interpreta le tele dell’amico Magritte come costante apparizione di un sogno, come disvelamento di un mistero.

È un mondo “onirico”, che lo stesso Bousquet alimenta e insegue indomito con la fascinazione della propria scrittura, per obliare l’indicibile dolore di vivere quotidianamente la morte e nel tentativo estremo di dare voce all’inconscio, di tradurre il silenzio in parole, di trasporre il fondo abissale di sé in un linguaggio metaforico o cifrato. Bousquet si rifugia così nella radura dell’immaginazione per sfuggire l’invalicabile muro del reale e si confronta con l’Ombra, attingendo alla sua sorgente pura al fine di cogliere, sul piano spirituale, un esiguo scampolo di vita, un effimero barlume di salvezza, nonostante il buio profondo dell’esistenza in cui è murato, come il Sigismondo de La vida es sueño: “Fuori dal nero, la luce non è: nel nero l’ombra è bagliore” (p. 55).

Georg Simmel, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici

In un saggio del 1925, il filosofo e musicologo francese Vladimir Jankélévitch afferma: “La notion de Vie est déjà comme le principe moteur, invisible et inexprimé, de l’épistémologie simmélienne”. La domanda relativa al “mondo della vita” rappresenta uno degli argomenti più discussi nell’ambito della filosofia contemporanea e risulta essere centrale soprattutto nell’esperienza speculativa di Georg Simmel, uno dei più grandi pensatori del ventesimo secolo, trovando la sua più compiuta e completa esposizione nel volume pubblicato postumo, nel dicembre 1918, Lebensanschauung: vier metaphysische Kapitel, disponibile nuovamente al pubblico italiano col titolo Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici (tr. it. di Gabriella Antinolfi, Mimesis Edizioni).

Sei mesi prima della sua morte, è lo stesso Simmel a confidare all’amico Hermann Graf Keyserling, in una lettera del 25 marzo 1918, di essere completamente assorbito da “complicate ricerche nel settore dell’etica e della metafisica”. Affetto da carcinoma maligno e in preda a forti dolori fisici, il filosofo e sociologo berlinese lotta strenuamente contro il tempo al fine di ultimare quello che considera il suo “testamento”: “La mia salute va molto male: di conseguenza la mia energia spirituale è notevolmente diminuita. Devo raccoglierla per terminare un libro a cui tengo molto perché rappresenta il briciolo di saggezza a cui sono giunto. Prima che sia terminato, niente altro può esistere per me”.

Il saggio Lebensanschauung, di carattere metafisico, si compone di quattro parti: La trascendenza della vita, La svolta verso l’idea, Morte e immortalità, La legge individuale. Fulcro nevralgico dell’intero volume è l’idea della limitatezza e della caducità della vita, che sarà ampiamente trattata poi dai teorici della filosofia dell’esistenza (Heidegger, Jaspers), ma anche da pensatori esistenziali privati come Emil Cioran. Non è un caso che proprio l’“intellettuale senza patria” romeno riconosca in Simmel un idolo indiscusso e insuperato della propria travagliata gioventù: “Il mio orientamento ‘filosofico’ è stato segnato da questa frase di Simmel nel suo breve saggio su Bergson, che ho letto attorno al 1931: ‘Bergson non ha visto il carattere tragico della vita, la quale, per conservarsi, deve distruggersi’” (Quaderni, p. 1046).

Come ha evidenziato anche Franco Volpi, infatti, Simmel approda a “una filosofia della vita pessimistica, dagli esiti misticheggianti” (Il nichilismo, p. 56). Il fulcro nevralgico attorno a cui ruota la sua riflessione in Lebensanschauung è quasi un’ontologia del limite, che investe qualsiasi ambito della vita (personale, sociale, storica): “La posizione dell’uomo nel mondo è definita dal suo trovarsi in ogni istante tra due limiti, in qualsiasi dimensione delle sue proprietà naturali e del suo comportamento. […] Per il fatto di avere sempre e ovunque dei limiti noi stessi siamo limite” (p. 29). Il limite attanaglia e stringe ogni forma dell’umano. Esso è connaturato in maniera fisiologica all’essere dell’uomo e si esplica nei vari modi in cui si manifesta o si concretizza la vita.

L’uomo è dunque inesorabilmente stretto nella morsa del limite ed è consapevole della drammaticità e ineluttabilità di tale condizione. Ma c’è un elemento che più di tutti incombe, come una spada di Damocle, in ogni singolo istante: lo spettro della morte: “La vita che noi consumiamo nell’avvicinarci alla morte, la consumiamo per fuggire la morte. Noi siamo come degli uomini che procedano su una nave in direzione opposta alla sua rotta: mentre essi vanno verso Sud, il ponte su cui camminano viene portato verso Nord insieme con loro. E questa duplice direzione del loro essere in movimento determina di volta in volta la loro posizione nello spazio” (p. 118).

La vita ci ricorda Simmel è costante movimento, mutamento, incerto e assurdo divenire, entro il limite del limite. Una prigione dell’impossibilità, un intricato labirinto, alla cui guardia vi è la morte. Se è questa la condizione umana, una condizione esposta al nulla, sospesa su un baratro, sempre minacciata dalla voragine, dalla caduta, dal fallimento, a nulla valgono le effimere creazioni umane (l’arte, la religione, la scienza, l’etica), che restano labili palliativi di un’effimera sopravvivenza, nella palude della contingenza e della caducità. Le espressioni che noi creiamo, in opposizione alla forza devastante della vita, non possono minimamente contenere, indirizzare o contrastare la vita stessa. Vi è un’eccedenza della vita e della realtà rispetto all’individualità e all’idealità. Questo vale anche per la filosofia, che resta perennemente “pensiero debole”, dal momento che “tra la natura della realtà e quella dei nostri concetti sussiste una vera e propria discrepanza, in conseguenza della quale questi non possono mai, per dir così, contenere appieno quella” (p. 225).

Secondo Simmel, infatti, nessuna filosofia potrà mai restringere la vita entro coordinate logico-semantiche o addirittura costringere l’accadere temporale a rientrare sotto il dominio del concetto. La vita, totalità dei possibili, costituisce perennemente un’eccedenza rispetto alle bramosie dell’intelletto, una forza estremamente fluida, flessibile, dilatante, in grado di sconvolgere ogni volta i sogni totalitari di ogni metafisica e dunque di spegnere gli “spasmi” assolutistici del pensiero, frutti ognuno di una cieca volontà di potenza. La vita, totalità delle forme, si sussegue realizzando se stessa nella caoticità del divenire senza alcun interesse e senza alcuna ragione. Essa precede il pensiero, che la rincorre senza soste.

Joë Bousquet, Poesie sparse

Si dona la vita solo attraverso l’emozione.
(Max Jacob)

In un breve saggio dedicato al poeta-filosofo francese René Daumal, recentemente pubblicato in Italia dalla casa editrice Mimesis (a cura di Adriano Marchetti), lo scrittore Joë Bousquet (1897-1950) sentenzia: “Le poesie iniziano solo al termine di una lunga meditazione sulla parola” (Cfr. Tradotto dal silenzio, p. 94). Parallelamente alla propria attività di saggista e prosatore lirico, nel chiuso della propria camera di Carcassonne, Bousquet ha esercitato nel corso degli anni un’intensa lotta con la poesia e le parole, conscio che ogni singola parola racchiude in sé un universo semantico sconfinato e che l’essenziale, per sua natura, sfugge sempre alla possibilità di essere definitivamente detto, intersoggettivamente comunicato.

Come dire infatti, a sé e agli altri, l’incomunicabile che risiede nell’abisso del nostro essere? Ossia: l’affettività, la paticità, il vissuto. In che modo esplicitare il fondo senza fondo della nostra mutevole soggettività, del nostro Io diviso? Più autentico e veritiero, forse, rispetto alla parola detta o scritta, è il silenzio taciuto, e allora, compito del pensiero che ha compreso il limite connaturato alla comunicazione interpersonale, sarà quello di trasporre, pacatamente e con estrema cautela, il senso e l’essenza dell’ineffabile mondo interiore nel linguaggio imperfetto delle parole, che divengono cifre effimere della nostra identità frantumata: “Poesia: l’innominato che si manifesta nell’operazione delle parole tra loro e che il poema impone” (Cfr. Note di inconoscenza, p. 116).

Dopo aver pubblicato nel 1947 presso Gallimard la raccolta poetica La conoscenza della sera, Bousquet, qui e là, all’interno della sua vasta produzione onirica, ci regala frammenti di versi e composizioni, testimonianze cruciali del suo solitario e appassionato (talvolta ermetico) pensiero poetante. Un recente volume, curato sempre in maniera egregia dallo specialista Adriano Marchetti, ha il merito di presentare ora, in maniera rigorosa ed unitaria, le 63 poesie “sparse”, composte tra il 1924 e il 1950, grazie a cui possiamo approdare ad una visione più completa circa il percorso poetico compiuto da Bousquet nel corso della propria esistenza.

Illuminante l’incipit, rappresentato da Canzone della soglia: “Prigioniero dei miei mali, caduto nel punto più oscuro della pietà umana, ho chiuso e rinchiuso sopra di me i muri della segreta, ho desiderato imprigionare il mio pensiero. Ho amato una donna. Il mio spirito non è più stato il luogo immaginario della vita, ha lasciato le stelle dov’erano. Imprigionare il mio pensiero in una creatura a mia immagine… il solo modo di opporre l’esistenza alle condizioni dell’esistenza” (p. 27).

Anche in questo volume è centrale la figura della donna, Lei, la sola capace di trasfigurare il dramma crudele della ferita nella grazia sublime del sentimento amoroso. È in virtù di questa illusione mai sopita che il poeta trascende la propria dolorosa quotidianità (poco più che ventenne, durante la prima guerra mondiale, una pallottola gli spezza la colonna vertebrale e lo costringe alla paralisi) e si proietta nella sfera dell’immaginazione come unica “via di fuga” dalla realtà: “Un uomo cambia come fan le nuvole in cielo… / Passasti lentamente la mano sul mio viso / e sull’aria angustiata che la mia fronte prese / attardandoti là dove i capelli sono grigi. / Oh, amore mio, oh amore mio, tu sola esisti…” (p. 33).

Attraverso la lettura di questo splendido volume, è possibile scorgere i temi fondanti del pensiero di Bousquet, declinati attraverso l’urlo silente della scrittura poetica: la solitudine cronica, il desiderio di amare ed essere amato, l’ineluttabilità della propria condizione, l’Ombra e la morte. Ma in trasparenza, filtra come un raggio di luce rischiarante, costantemente, la presenza di una donna (o più donne, poco importa), come unico spiraglio di redenzione, nella via crucis di una carne inchiodata nel letto. È il caso della poesia Isel: “La morte, occhi immensi per amare / due rose che ho nel sangue / ove pare sempre sparire il mare / L’arsura dentro che di fuoco langue, / dove l’infanzia mi scaccia danzando / da un corpo che bagnò senza di me / Il cuore pone al mio posto il mondo / Io divento la notte che lo scorge” (p. 129); e ancora, della lirica I tuoi occhi sono le bilance…: “I tuoi occhi sono le bilance / della notte e del giorno / e il tuo corpo è questo giorno. // Nasci da questa notte / flagello della giornata / che si disfa su di te. // Sei tu l’angelo di un re / flagello delle tue annate / chiusa stella di sangue / sulla notte che si copre di stelle” (p. 169).

Attraverso la lettura di questo splendido volume, si giunge alla piena consapevolezza della centralità e della necessità (lampante e insopprimibile) dell’esperienza poetica, nell’excursus biografico e spirituale di Bousquet. È l’Autore stesso a suggerirci e a offrirci, in altri contesti, tracce o accenni di tale approccio prospettico: “Mi creerò una vita di cui la poesia sia il riflesso e non la luce” (Cfr. Il compagno luna, p. 71); “La poesia è stata la mia salvezza. Ora tocca a me salvare la poesia dal poeta che sono divenuto, a dispetto di me” (Cfr. Mistica, p. 66).

Seguendo Bousquet allora, è possibile affermare che la poesia attenua la morte dell’anima, lenisce l’immenso dolore della coscienza di essere coscienza infelice: “[…] la morte aprendomi la porta / volle che tra i miei passi il vento raccolto per te facesse / ai miei versi il dono che nessuna eco via trasporta / da un cuore che s’arrestava per udire la tua voce” (p. 41). Dall’esilio dell’esistenza, sorge in Bousquet, un canto di universale bellezza, un grido straziato che è, al tempo stesso, anelito e ossequio di speranza: “Assenza della notte / La terra nel giorno // Dov’è la notte? / Nel cuore della terra, nel cuore / del nostro cuore, notte diamantata / Portiamo un’espressione della verità: con un vero panico, afferriamo / l’accento di tale verità, la cantiamo / per nascondere che abbiamo paura, / paura di dirla, paura di obliarla…” (p. 195).

Stefan Zweig, Il libro come accesso al mondo e altri saggi

Il libro, a differenza dell’uccello, muore con le ali spiegate.

(E. Jabès)

Zweig è una garanzia assoluta: non delude mai. Sì, perché lo scrittore di origine austriaca è un indubbio – universalmente riconosciuto – “maestro” della scrittura. Una scrittura psicologica, articolata e profonda, mai autoreferenziale sul piano estetico, che progressivamente discende nel fondo dell’anima, poiché ha di mira esclusivamente il cuore e l’essenza dello spirito. Particolarmente lodevole, allora, la recente iniziativa della casa editrice Archinto che ha da poco pubblicato il bel volume Il libro come accesso al mondo e altri saggi, nella mirabile traduzione di Simonetta Carusi, che raccoglie articoli e recensioni redatte tra il 1905 e il 1931.

Il volume rappresenta un’appassionata celebrazione dell’oggetto “libro” ai primordi del Novecento e, al tempo stesso, un’esaltazione della cultura come collante e propulsore di civiltà. Scrive Zweig, attraverso la sua inconfondibile e dettagliata prosa: “Tutto o quasi tutto il movimento spirituale del nostro mondo oggi si fonda sul libro, e il sistema di valori condivisi che chiamiamo Cultura sarebbe impensabile senza la sua esistenza. Il libro ha il potere di dilatare l’anima e costruire mondi nella nostra vita interiore, ma noi ce ne avvediamo di rado, e quasi sempre solo nel tempo libero: è troppo ovvia oramai la sua presenza nella nostra sfera lavorativa perché noi possiamo cogliere ed apprezzare il miracolo che si rinnova ogni volta che ne apriamo uno” (p. 18).

Zweig attribuisce dunque al libro una funzione “innovativa”, “sovversiva”, “rivoluzionaria”, nell’ambito della storia umana. Esso ci consente di oltrepassare i limiti spazio-temporali in cui siamo naturalmente confinati e di aprirci al dialogo con altre persone e altre culture, condividendo quella imperscrutabile humanitas che è (o dovrebbe essere) il tratto peculiare dell’homo sapiens: “Ovunque, non soltanto nelle nostre vite individuali, il libro è l’alfa e l’omega di ogni sapere e l’inizio di ogni scienza. E quanto più si vive in intimità con i libri, tanto più profondamente si sperimenta la totalità della vita, perché colui che ama i libri, grazie al loro aiuto, vede e comprende il mondo in modo miracolosamente potenziato, non solo con i propri occhi, ma con lo sguardo di innumerevoli anime” (p. 30).

Come sappiamo, l’intellettuale viennese dedicherà al mondo della lettura e della letteratura il meraviglioso racconto Mendel dei libri (1929), che si conclude emblematicamente con queste parole: “[…] i libri si creano solo per continuare a restare uniti agli uomini ben oltre la breve durata del nostro respiro, e difendersi così dall’impietosa controparte di ogni esistenza: la caducità e la dimenticanza”. Proprio per lenire l’inesorabile fugacità del tempo e la spietata condanna dell’oblio, e parallelamente promuovere valori universali in grado di forgiare una visione del mondo basata sulla libertà, la moralità e il cosmopolitismo, Zweig, con passione argomentativa e rigore speculativo, recensisce opere di Freud, Rilke, Joseph Roth, e al contempo disquisisce sulla fiaba, come genere letterario, e sulla celebre raccolta di novelle orientali Mille e una notte.

Ciò che emerge da questi contributi sparsi (ma non affatto secondari o minori all’interno della vasta produzione del raffinato letterato e saggista mitteleuropeo) è lo sconfinato amore, la smisurata dedizione che Zweig rivolge verso le cosiddette Geisteswissenschaften. Zweig è infatti un lettore accanito, onnivoro, che divora indistintamente romanzi, testi di poesia, saggi psicanalitici, ma che non disdegna di “ritornare” alle atmosfere irreali ma istruttive della fiaba: “Nelle fiabe non c’è niente di vero e niente che risponda alle leggi del nostro mondo, eppure tutto è reale finché siamo disposti a crederci – e sono ormai secoli che crediamo a tali, effimere bugie” (p. 43).

In controtendenza rispetto alla “situazione spirituale del tempo”, dominata dal monotono e sterile “pensiero calcolante” che svilisce e depaupera l’interiorità dell’uomo, Zweig si pone dunque come strenuo difensore della cultura umanistica, poiché solo su di essa è possibile attingere l’autentica e feconda sostanza di cui si nutre, giovandosi, la psiche umana: “I libri – rammenta ancora Zweig – conservano, come fossero accumulatori, una corrente spirituale che si propaga e genera nuova energia. Sono l’inesauribile riserva del nostro sapere, le pietre fondanti del monumento eternamente incompiuto della nostra immagine del mondo” (p. 109).

Colin Wilson, Religione e ribellione

Dopo la pubblicazione nel 1956 dell’acclamato Outsider, l’anno successivo lo scrittore britannico Colin Wilson pubblica il voluminoso saggio Religion and the Rebel, recentemente apparso anche in Italia, grazie alla traduzione di Nicola Manuppelli per Carbonio Editore, con il titolo: Religione e ribellione.

Non si tratta di un testo di filosofia della religione classico, teso a chiarire il rapporto dell’esistenza con la divinità o la trascendenza. La religiosità di cui Wilson si fa portavoce ha una connotazione squisitamente immanente e terrena. Essa non rinvia ad una ulteriorità lontana e imperscrutabile (il Deus absconditus) delle religioni storiche, ma al rapporto che l’outsider, colui che è “ossessionato dal senso di futilità della vita” (p. 58), instaura con sé e con il mondo, al fine di espandere e approfondire la propria coscienza, ossia la propria spiritualità.

È qui che si manifesta autenticamente la dimensione del “sacro”: nella capacità di scendere nel cuore di sé e di entrare in contatto con la propria interiorità, con il sentimento del “divino” che dimora in noi, nonostante la finitezza dell’umano: “L’outsider – infatti – con il suo istintivo bisogno di diventare qualcosa di più che un uomo (…) sente la necessità di collocare l’uomo su una tela più grande della semplice umanità, vuole vederlo in relazione alle sue maggiori possibilità spirituali” (p. 63).

Dopo un’introduzione “retrospettiva”, di carattere autobiografico, Wilson articola il proprio discorso in due parti. La prima, di carattere storico, analizza con Spengler il declino della civiltà occidentale. La seconda ripercorre invece la vita e il cammino di pensiero di filosofi, scienziati, poeti e scrittori visionari che hanno considerato la religione una via per cogliere pienamente la propria individualità: “Nel momento in cui consideriamo uomini come Rimbaud o Rilke, siamo consapevoli di trovarci davanti a un’intensità di vita più profonda, un livello di vita che è molto più significativo dell’esistenza che la maggior parte di noi conduce” (p. 174).

In contrapposizione ad una concezione intellettualista e materialista, che è alla base della morte della civiltà occidentale, Wilson promuove il recupero e la rivalutazione di una “tradizione esistenzialista”. Secondo Wilson infatti: “le civiltà crollano quando iniziano a perdere il controllo della loro complessità. E perdono il controllo della loro complessità nel momento in cui iniziano a pensare per categorie materialiste; perché in ultima analisi, tutto il potere è spirituale” (p. 152).

Wilson passa quindi in rassegna la vita di pensatori introspettivi ed esistenziali come Pascal, Swedenborg, Kierkegaard, Wittgenstein e altri. L’excursus biografico e teorico di ogni singolo autore mette in luce il tratto distintivo di ciascun “outsider”, in relazione al contesto storico-culturale in cui è vissuto. Un filo conduttore lega però le varie esperienze: la ribellione contro il razionalismo scientifico e la Chiesa ufficiale.

Dopo aver scandagliato e analizzato la psicologia del “tramonto dell’Occidente”, legata ad una presenza eccessiva dell’intelletto, a scapito di altre dimensioni o forme dell’umano, come l’emotività e l’immaginazione, Wilson confida nella funzione eroica dei cosiddetti “ribelli”, coloro che sono andati al di là della loro epoca, scrutando in se stessi.

Oggi infatti siamo ad un punto di non ritorno, in un vicolo cieco: “Credo che ogni civiltà raggiunga un momento di crisi e che quella occidentale sia ormai giunta al proprio. Ritengo che questa crisi presenti anche una sfida: collassare, o evolversi” (p. 353). Il baratro abissale è quindi ad un passo, perché “la nostra epoca è sull’orlo di un declino finale” (p. 355). C’è un unico sentiero da percorre, se vogliamo risalire la china: ascoltare la voce inaudita degli “outsider” che ci hanno preceduto e immaginare con essi un mondo diverso:

“La civiltà non può continuare nel suo modo attuale, confuso e miope, producendo frigoriferi sempre migliori, schermi cinematografici sempre più ampi e uomini continuamente prosciugati dell’idea di una vita dello spirito. L’outsider è il tentativo della natura di controbilanciare questa morte di intenti. La sfida è immediata e richiede la risposta di chiunque sia in grado di comprenderla” (p. 354).

Fernando Savater, L’amore che resta

È così: la passione amorosa è una maniera di entrare in sintonia con l’altro, anima e corpo, e soltanto con lui o lei. Siamo al di qua e al di là della filosofia.

(André Gorz)

Nella primavera del 2015 iniziai a progettare l’organizzazione di un Convegno internazionale dedicato alla “religiosità atea” di Emil Cioran, da tenersi a Napoli nella primavera o nell’autunno del 2017. Da alcuni anni, ero già in contatto via email con il Prof. Fernando Savater pertanto, in cima alla lista dei possibili relatori, avevo fiduciosamente e ambiziosamente inserito il suo nome. Savater è stato un grande amico di Cioran, su di lui aveva scritto una tesi di dottorato, pubblicata nel 1974 con il titolo “Ensayo sobre Cioran” e, quindi, avrebbe potuto offrire una testimonianza diretta del suo irrequieto e provocatorio pensiero, sempre oscillante tra “Dio e il Nulla”.

Inizialmente Savater mostrò vivo interesse per il mio progetto. Ecco cosa mi scrisse il 9 maggio 2015: “Caro Di Gennaro: grazie per il tuo gentile invito. Accetto con piacere. Se nella primavera del 2017 saremo ancora vivi, ci incontreremo a Napoli. Cordialmente, F. Savater”. Man mano che i mesi passavano però, notavo, senza comprenderne il motivo, che l’iniziale entusiasmo del filosofo spagnolo andava via via scemando. In una email del 4 novembre 2016, mi scrive: “Caro amico, grazie per questo gentile invito. Dal mese scorso ho abbandonato tutte le mie attività pubbliche. Il mio discorso a Milano è stato l’ultimo della mia carriera. Infatti, considero concluso il mio tempo di filosofo ‘coram populo’. Ma novembre 2017 è ancora lontano e Cioran è un autore molto speciale per me quindi, anche se non ti dico che parteciperò, non oso nemmeno dirti di no. Lasciamoci con questo dubbio… cioraniano. Cordialmente, F. Savater”.

Non c’era ancora un “no” definitivo, dunque, ed io nutrivo inconsciamente la forte speranza, che al simposio partenopeo, in quanto “special guest”, lui potesse alla fine partecipare, avendo anche coinvolto tra i partner dell’evento il prestigioso Instituto Cervantes Nápoles. Il 31 gennaio 2017, in piena fase esecutiva, arriva però la risposta conclusiva, che non lasciava adito a interpretazioni o a eventuali spiragli: “Caro amico, grazie per il tuo gentile invito. Ho già rinunciato a tutte le attività pubbliche e ora vivo molto ritirato. Sinceramente non credo che potrò raggiungervi al convegno di novembre, per il quale ti auguro ogni successo. Cordialmente, Fernando Savater”. Enormemente dispiaciuto, accettai amareggiato il diniego, senza capire però le reali motivazioni sottese a una tale scelta. Solo ora, a distanza di quattro anni, ho trovato le risposte che cercavo, nel meraviglioso volume autobiografico “La peor parte. Memorias de amor” (2019), recentemente pubblicato, con la traduzione italiana di Andrea De Benedetti, dalla casa editrice Laterza col titolo “L’amore che resta”.

Dopo aver pubblicato “Contrattempi. Autobiografia di una ragione appassionata”, “L’amore che resta” costituisce il tassello complementare per ricostruire la vita, l’opera e il pensiero dell’antiaccademico Fernando Savater, epigono contemporaneo di Montaigne, Schopenhauer, Nietzsche, de Unamuno e Cioran. Proprio in “Contrattempi”, nel capitolo “21, rue de l’Odéon”, dedicato al pensatore romeno-parigino, leggiamo: “Se c’è una cosa che non perdono a Cioran, non sono le sue velleità hitleriane in gioventù – rabbiose provocazioni di un esteta metafisico che confondeva la ribellione contro il cosmo con il nichilismo politico – quanto il non aver menzionato Simone più affettuosamente nei suoi Cahiers” (p. 232).

Contrariamente all’amico transilvano, Savater decide di dedicare alla propria compagna di una vita (Sara Torres Marrero, affettuosamente soprannominata “Pelo Cohete” per il taglio “punk” dei capelli avuti in giovane età) un intero volume, intenso, emozionante, struggente. L’intellettuale di San Sebastián si confessa senza veli, raccontando i dettagli intimi di una relazione durata 35 anni e che ha plasmato, in maniera indelebile, la sua interiorità e la sua personalità. Nel marzo del 2015 viene diagnosticata alla donna (all’età di cinquantanove anni) un incurabile tumore cerebrale. Seguono nove mesi di “calvario” (tra visite mediche, ospedali e una delicata operazione a Baltimora negli Stati Uniti), una via crucis, che si concluderà nell’ineluttabile epilogo e che condurrà Savater alla perdita irrimediabile di una parte di sé: “da quando è morta, incredibilmente più di quattro anni fa, non c’è stata un’ora in cui io non l’abbia pianta né un giorno in cui non abbia versato lacrime per lei” (p. XII).

Affranto dal dolore, nel pieno del lutto, Savater decide di trasfigurare attraverso la scrittura, sotto forma di parole, l’assordante e ineffabile sentimento di disperazione, al fine di rendere omaggio e mantenere viva la memoria della persona amata. È una necessità impellente, immanente, improrogabile: ripercorrere le tappe di una vita, ricordare gesti, episodi, testimoniando ad altri, anche con aneddoti scherzosi, il senso e l’essenza della complicità e della gioia amorosa vissuta insieme. Savater racconta così del loro incontro in un bar della Facoltà di Filosofia di Zorroaga, della comune passione per il cinema, dei viaggi all’estero, e ci descrive il carattere esplosivo dell’esuberante “Pelo Cohete”. Ma, al tempo stesso, racconta anche dell’improvvisa malattia e del sopraggiungere inatteso del fato avverso che gli provoca, in maniera funesta, una profonda scissione esistenziale:

[…] la verità è che ho lottato per salvarla, ma c’è stato un momento in cui mi sono convinto che era impossibile, e allora – sia maledetto per sempre – ho cercato di salvarmi da lei. Non c’è nulla di più atroce dell’abbraccio dell’agonizzante che cerca di trascinarci con sé nelle ultime profondità, perché questo promette chi ama quando fa veramente sul serio: di non abbandonarti mai. Arriva un momento in cui dobbiamo scegliere se accompagnare fino in fondo la persona amata, ormai in balia del vertiginoso maelström dell’irrimediabile, oppure sopravvivere. E io sono sopravvissuto” (p. 32).

Le ultime pagine del libro, contengono delle foto, delle istantanee, che ritraggono la coppia in momenti di felicità. L’amore scrive Savater “[…] somiglia alle fotografie della vecchia Polaroid, dove le figure apparivano poco alla volta sulla carta che agitavamo con impazienza mentre soffiavamo per asciugarla più in fretta: inizialmente sfocate, confuse, poi lentamente distinte fino a raggiungere la massima nitidezza… o fino a convincerci che avevamo rovinato lo scatto. L’amore si rivela” (p. 58). Attraverso la lettura di questo incantevole libro il lettore resterà ammaliato dalla descrizione poetica di un amore profondo, autentico, sincero. Tale testimonianza nasce infatti da una richiesta esplicita di “Pelo Cohete” e Savater sente il dovere di non poter non adempiere con responsabilità a una promessa, come ultimo gesto del proprio grande amore:

Uno dei primi giorni del nostro calvario, all’ospedale di Pontevedra, appena conosciuta la diagnosi il cui esito fatale ancora ignoravamo ma che già presagivamo capace di separarci, abbracciati sul tuo letto sfatto, mi dicesti: “Se tu non lo racconti, nessuno saprà che cosa siamo stati l’uno per l’altro”. Non sono sicuro di poterlo raccontare, amore mio, temo di non essere all’altezza di una tale sfida, ma capisco che sarebbe miserabile, da parte mia, non provarci nemmeno. Ecco dunque che cosa mi resta da fare (p. XIII).