“Al culmine dell’alba”. La psicologia dell’amore in Pedro Salinas

Il sogno è una seconda vita[1].

Il sogno non si oppone al reale: il reale contiene il sogno[2].

La voce a te dovuta (dicembre 1933), Ragioni d’amore (giugno 1936), Lungo lamento (composto tra il 1936 e il 1939, ma pubblicato postumo) costituiscono la trilogia delle poesie d’amore di Pedro Salinas, scrittore spagnolo, tra i maggiori del Ventesimo secolo. C’è un elemento che accomuna queste tre opere, al di là della straordinaria bellezza dei versi: l’utilizzo, trasversalmente reiterato, del pronome personale “tu”. Manca sempre un nome, manca qualsiasi riferimento ad una singola persona concreta e viene invece adottato continuamente un generico “tu”. Quest’aspetto insolito ha portato alcuni critici di Salinas a congetturare le più fantasiose ipotesi interpretative. In particolar modo, inizialmente, Leo Spitzer ipotizza, in maniera assolutamente fuorviata, che la donna sia solo un “fenomeno della coscienza” e parla quindi di “concettualismo interiore”[3], mentre Ángel del Río sostiene che “La poesia di Salinas è fatta soprattutto di sottigliezze psicologiche”[4]. In altre parole, l’amore poetato da Salinas sarebbe un amore mistico, ideale, platonico, astratto, senza alcun contatto con il mondo reale, con l’universo delle passioni, della carne, del desiderio, della follia, vale a dire con l’Eros.

In realtà, è lo stesso Salinas a creare le condizioni di questo programmato “sviamento”. Leggiamo a titolo di esempio una poesia tratta da La voce a te dovuta, opera con cui ha inizio il dialogo interiore di un’anima con sé, che si volge e si rivolge ad un’altra anima. È un soliloquio intimo e ininterrotto, è la descrizione, individuale e universale, di ciò che accade all’io, quando è sentitamente e sentimentalmente coinvolto, avvinto da una forza inarrestabile come l’amore, trascinato dal turbine impetuoso delle passioni. Facciamo riferimento alla poesia XIV:

Per vivere non voglio

isole, palazzi, torri.

Che altissima allegria:

vivere nei pronomi!

Getta via i vestiti,

i connotati, i ritratti;

non ti voglio così,

travestita da altra,

figlia sempre di qualcosa.

Ti voglio libera, pura,

irriducibile: tu.

Quando ti chiamerò, so bene,

fra tutte le genti

del mondo,

solo tu sarai tu.

E quando mi chiederai

chi è che ti chiama,

che ti vuole sua,

sotterrerò i nomi,

le pergamene, la storia.

Comincerò a distruggere quanto

m’hanno gettato addosso

da prima ancora ch’io nascessi.

E ritornato ormai

all’eterno anonimato

del nudo, della pietra, del mondo,

ti dirò:

«Io ti voglio, sono io»[5].

A dire il vero, la poetica di Salinas non trascende la dimensione empirica, fattuale, carnale, pur essendo di un’accecante intensità trascendentale. Essa rappresenta l’apice dell’ineffabile dire amoroso, il “culmine dell’alba”[6], parafrasando lo stesso Salinas. Nei versi del poeta madrileno è possibile scorgere l’Assoluto, la grazia, Dio, il divino, ma questa dimensione “ultraterrena” e “metafisica” del linguaggio lirico, che tenta di dire l’inesprimibile, attingendo inconsciamente al sottosuolo onirico, non ha a che fare con l’ulteriorità, ma con l’immanenza, “umana, troppo umana” del sentimento amoroso, che lacera l’interiorità, che strugge e toglie il fiato. Qui in gioco, nel gioco “demoniaco” della creazione dei versi, non vi sono idee o concetti, ma più semplicemente l’improvviso e inspiegabile palpito del cuore. Dietro la fraseologia poetica di Salinas, vi è la fisiologia, la psicologia di un amore vissuto e patito, in carne ed ossa, nel profondo dell’anima. Leggiamo la poesia V, sempre da La voce a te dovuta:

È stato, accadde, è vero.

Fu in un giorno, fu una data

che segna il tempo al tempo.

Fu in un luogo che io vedo.

I suoi piedi toccavano il suolo

questo stesso che tutti tocchiamo.

Il suo vestito

era simile ad altri

che indossano altre donne.

Il suo orologio

sfogliava calendari,

senza scordare un’ora:

come contano gli altri.

E quello che lei mi disse

fu in una lingua del mondo,

con grammatica e storia.

Così vero

che sembrava menzogna.

No.

Devo viverlo dentro,

me lo devo sognare.

Togliere il colore, il numero,

il respiro tutto fuoco,

con cui mi bruciò nel dirmelo.

Mutare tutto in forse,

in mero caso, sognandolo.

Così, quando vorrà smentire

ciò che mi disse allora,

non mi morderà il dolore

d’una felicità perduta

che io tenni fra le braccia,

come si tiene un corpo.

Crederò di aver sognato.

Che tutte quelle cose, così vere,

non ebbero corpo, né nome.

Che perdo

un’ombra, un sogno ancora[7].

In queste righe vi è un’esplicita e, al tempo stesso, enigmatica ammissione di un dato di fatto, dello status quo: “È stato, accadde, è vero”. Salinas riconosce che è tutto “vero” ciò di cui parla, è la verità, non è una finzione. Si riferisce ad una donna concreta: ai suoi “piedi”, al suo “vestito”. Fa riferimento al suo “orologio”, che dà inizio ad un nuovo corso del proprio tempo interiore, ad una nuova età psichica, ad una nuova era nello sviluppo della sua personalità. Ma non svela il nome, non rivela alcuna identità precisa. Oscilla tra la realtà apodittica e il mistero del sogno, finge, mette in scena, inscena, una mistificazione del retroscena, c’è sempre quest’ambivalenza di un rebus che non viene mai risolto, ma che rinvia ad un’Ombra, alla “menzogna”, quasi fosse tutto frutto della fervida immaginazione del poeta, l’effimero e aleatorio prodotto di un sogno sognato. Ma chi c’è realmente dietro il “tu” invisibile e taciuto? Qual è il nome proprio, sotteso al pronome “tu”? Esiste un volto, una figura, uno sguardo, a cui la “La voce a te dovuta” è dovuta? In altre parole: chi è la persona a cui si riferisce Salinas nell’intera raccolta e nell’intera trilogia amorosa?

Grazie al prezioso lavoro del Prof. Enric Bou, autorevole ispanista, abbiamo accesso a parte della corrispondenza con la donna che ha ispirato Salinas, la “Musa ispiratrice”, la femme fatale che ha inavvertitamente ammaliato, sedotto e sconvolto la vita dello scrittore spagnolo, sino alla morte: l’americana Katherine Whitmore, donna bella, affascinante, trentacinquenne all’epoca del loro incontro, avvenuto nell’estate del 1932. Salinas aveva quarant’anni, era sposato con Margarita Bonmatí Botella, di sette anni più adulta, e aveva due figli: Jaime e Solita. Lavora al Centro di Studi Storici, era professore presso l’Università di Madrid ed è uno dei fondatori dell’Università Internazionale di Santander. Katherine, invece, insegna allo Smith College, e si reca a Madrid per seguire un corso di letteratura spagnola, tenuto proprio da Salinas. Sin dalle prime lezioni è “colpo di fulmine”, come si evince da una delle primissime lettere della corrispondenza: “Nessuno ha notato niente, nessuno si è accorto di nulla. Ma quella sera, uscendo dall’aula, il mondo portava con sé una nuova illusione, un desiderio ulteriore. Ti assicuro che pensavo non l’avresti mai saputo. Ho pensato che saresti passata al mio fianco senza che io potessi avvicinarmi alla tua altezza divina, lontana e superiore, come gli dèi e i desideri più alti. ‘Lo saprà mai?’, mi sono chiesto tra me e me” (lettera del 2 agosto 1932)[8].

L’incontro avviene all’insegna di un bagliore accecante, di una “luce improvvisa”[9], che stravolge il percorso esistenziale di Salinas. Nulla sarà più come prima: i giorni, le notti, gli impegni accademici, la famiglia. Tutto passa in secondo piano, tutto diviene secondario, talvolta irrilevante. Infatti, grazie all’amore, corrisposto da Katherine, Salinas percepisce un sentimento di unità totale, di completa integrazione col mondo. Non si sente isolato, estraneo, straniero, estraniato, ma accolto tra le braccia della persona amata, riconosciuto dallo sguardo di lei, per dirla con Sartre, “giustificato di esistere”[10]. È ebbro di sé perché il suo ha valore incondizionato agli occhi dell’altro. La relazione con la giovane americana diviene, pertanto, l’intero suo mondo: un mondo auto sussistente, in virtù del quale egli percepisce, come suggerisce la poesia XLV, una sensazione di costante “elevazione”, “ascensione”, “ascesa”:

La materia non pesa.

Il tuo corpo ed il mio,

uniti, non sentono mai

schiavitù, sentono ali.

I baci che tu mi dai

sono sempre redenzioni:

tu baci verso l’alto,

e qualcosa di me porti a luce,

costretto prima

nel fondo oscuro.

Lo salvi, lo guardiamo

per vedere come ascende,

e vola, per l’impulso che gli dai,

verso il suo paradiso

dove ci aspetta.

No, non opprime la tua carne

e neppure la terra che calpesti

né il mio corpo che stringi.

Sento, quando mi abbracci,

che ho tenuto contro il petto

un lieve palpitare,

vicinissimo, di stella,

che viene da un’altra vita.

Il mondo materiale

nasce quando tu parti.

E sull’anima sento

quest’oppressione enorme

di ombre che hai lasciato,

di parole, senza labbra,

scritte su fogli di carta.

Restituito alla legge

del metallo, della roccia,

della carne. La tua forma

corporea,

il tuo dolce peso rosa,

è ciò che mi rendeva

il mondo più lieve.

Ma ciò che non sopporto

e che mi schiaccia,

chiamandomi alla terra,

senza te per difendermi,

è la distanza,

è il vuoto del tuo corpo.

Sì, tu mai, tu mai:

il tuo ricordo, è materia[11].

L’amore tra Salinas e Katherine Whitmore è in ogni caso un amore “in sospeso”, “in bilico”, vissuto tra le difficoltà oggettive della distanza geografica e la consapevolezza di essere espressione di una relazione extraconiugale. Col passare del tempo, l’entusiasmo iniziale dell’innamoramento è messo a dura prova dalla “situazione-limite” del vincolo matrimoniale, cui è legato Salinas. Katherine reclama maggiori certezze, vorrebbe un salto di qualità nella relazione, e soprattutto il rapporto subisce un’inclinazione netta a seguito del tentato suicidio, il 27 febbraio 1935, di Margarita, moglie del poeta spagnolo. Sia nelle lettere, che nelle poesie, a partire soprattutto dalla silloge Ragioni d’amore, si avverte la comparsa di una velata sfumatura di grigio, nel cielo limpido e azzurro dell’amore. Progressivamente, si va insinuando il tarlo minaccioso di una possibile fine, di una separazione, di un abbandono, di un addio, di un “no” che segue a un “sì”, di un doloroso e ineluttabile ritorno al mondo cupo della spettrale solitudine.

Questo processo inevitabile, la traiettoria di questa parabola discendente, è perfettamente visibile, se leggiamo le poesie della raccolta postuma Lungo lamento, e se al contempo prendiamo in considerazione la seconda parte delle lettere. Le poesie e le epistole vanno di pari passo, rappresentano il doppio binario di una medesima psicologia dell’amore, si chiariscono, si integrano e si completano a vicenda. Le lettere stesse presentano un tono poetico: sono poesie scritte in forma di prosa epistolare. Se agli esordi prevale il tema dell’“ascesa”, della “salita”, dell’“apertura”, ora prevale invece quello dell’“inverno”, del “vuoto” e della “caduta”.

La fine di un amore provoca, come sempre, il “lutto” della coscienza, il venir meno del mondo, sul quale avevamo fondato la nostra relazione con il mondo. Salinas avverte il trauma, la ferita, il taglio, e i suoi testi rispecchiano in pieno la modificazione dei sentimenti, la lacerazione nel vissuto, la perdita di coordinate vitali, lo spaesamento, il freddo e il buio dell’esistenza. “Dammi luce e sarò chiaro / non ti stufi la mia pena / di quando tu non mi illumini”[12], sembra essere l’implorazione finale, la supplica conclusiva contenuta in Lungo lamento, la presa di coscienza di un amore perduto, giunto ormai irrimediabilmente al capolino. Emblematica in tal senso la poesia 50, posta a chiusura di Lungo lamento, che rappresenta il grido malinconico e struggente per ciò che avrebbe potuto essere, e che purtroppo, per ironia della sorte avversa, non è più stato:

Non rifiutare i sogni in quanto sogni.

Tutti i sogni possono

esser realtà, se il sogno non finisce.

La realtà è un sogno. Se sogniamo

che la pietra è la pietra, quello è la pietra.

A correre nei fiumi non è un’acqua,

ma è un sognare, l’acqua, cristallino.

Maschera i propri sogni

la realtà e dice:

«Io sono il sole, i cieli, l’amore».

Mai però se ne va, mai si allontana,

se fingiamo che sia più d’un sogno.

E viviamo sognandola. Sognare

è quel modo che l’anima

ha per non farsi mai sfuggire

quel che le sfuggirebbe se smettessimo

di sognare che è vero quello che non esiste.

Solo muore

un amore se non è più sognato

fatto materia e che si cerca in terra[13].

Il sogno, allora, è la chiave di accesso privilegiata per comprendere la complessa e articolata psicologia amorosa di Salinas, che si esplica naturalmente, istintivamente, pulsionalmente, attraverso il dire poetico e la scrittura epistolare. In una lettera del 12 febbraio 1934, quando la relazione con Katherine è ancora solida e idilliaca, Salinas, in treno, di ritorno da Malaga, si riferisce al sogno, con queste parole: “Un sogno, che non ha di chi sognare, è solo un sogno, incompleto, la metà della vita. Ma quando qualcuno ci ama, tanto da farci sognare in esso, quello diventa completo. Tu mi hai amato, affinché io sognassi in te, perché tu sognassi in me. Ed ecco perché oggi, questo pomeriggio, il mio sogno dell’anima è stato perfetto. Grazie, vita, per aver lasciato che ti sognassi e mi sognassi, e sognassi la vita in noi fatta carne, sognata da un uomo e una donna che si amano, sognandosi”[14].

L’amore per Salinas è dunque un sogno che non finisce mai: un sogno perenne, perpetuo, immortale, imperituro, che si nutre avidamente dell’immaginazione e del desiderio. Se corrisposto, è un sogno “reale”, che dona beatitudine ed ebbrezza nell’anima, la pienezza della vita, nella relazione con l’altro, nella fusione miracolosa di due individualità. Se non è corrisposto, o non è più corrisposto, è un sogno “irreale”, “immaginifico”, che la coscienza scissa, lesionata, frantumata, s’inventa per non sprofondare nella palude della propria solipsistica ipseità, della propria glaciale iità, ossia è l’ultimo appiglio, al quale disperatamente aggrapparsi, per lenire, per quel poco che vale, la ferita lancinante di un’aberrante solitudine esistenziale e simulare, a sé e al mondo, di non essere ancora morti, di possedere ancora il privilegio atavico delle lacrime, trattenute a stento negli occhi.


[1] G. de Nerval, Il sogno e la vita, a cura di F. Calamandrei, Einaudi, Torino 1943, p. 101.

[2] J. Bousquet, Le Bréviaire bleu, Rougerie, Mortemart 1977, p. 15.

[3] L. Spitzer, El conceptismo interior de Pedro Salinas, Revista Hispánica Moderna, Año 7, No. 1/2 (Jan. – Apr., 1941), pp. 33-69.

[4] A. Del Río, Historia de la literatura española. Desde 1700 hasta nuestros días, Barcelona 1948, vol. II, p. 502.

[5] P. Salinas, La voce a te dovuta, a cura di E. Scoles, Einaudi, Torino 1979, XIV, p. 49.

[6] Id., Ragioni d’amore, a cura di V. Nardoni, Passigli Editori, Firenze 2006, p. 27, v. 18.

[7] Id., La voce a te dovuta, cit., V, pp. 15 e 17.

[8] Id., Cartas a Katherine Whitmore (1932-1947), Edición y prólogo de E. Bou, Tusquets Editores, Barcelona 2002, p. 41. Per un inquadramento della relazione tra Pedro Salinas e Katherine Whitmore si rinvia a: J. Cross Newman, Pedro Salinas y su circunstancia. Biografía, traduccion de R. Cifuentes, Páginas de Espuma, Madrid 2004, pp. 223-249; Ruth Katz Crispin, “¡Qué verdad revelada!”: The Poet and the Absent Beloved of Pedro Salinas’ “La voz a ti debida”, “Razón de amor” and “Largo lamento”, Revista Hispánica Moderna, Jun., 2001, Año 54, No. 1 (Jun., 2001), University of Pennsylvania Press, pp. 108-125; C.E. Peragón López, Algunas notas sobre la proyección literaria en el epistolario de Pedro Salinas a Katherine Whitmore, Revista de Literatura, LXVI, 132 (2004), pp. 465-484; Montserrat Escartín Gual, Pedro Salinas, una vida de novela, Ediciones Cátedra, Madrid 2019, pp. 123-226.

[9] P. Salinas, La voce a te dovuta, cit., XII, p. 41, v. 3.

[10] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it. di G. del Bo, il Saggiatore, Milano 1997, p. 421.

[11] P. Salinas, La voce a te dovuta, cit., XLV, pp. 143 e 145.

[12] Id., Il corpo, favoloso. Lungo lamento, a cura di V. Nardoni, Passigli Editori, Firenze 2015, p. 83.

[13] Ivi, p. 187.

[14] Id., Cartas a Katherine Whitmore (1932-1947), cit., p. 245.

Stefan Zweig, Il libro come accesso al mondo e altri saggi

Il libro, a differenza dell’uccello, muore con le ali spiegate.

(E. Jabès)

Zweig è una garanzia assoluta: non delude mai. Sì, perché lo scrittore di origine austriaca è un indubbio – universalmente riconosciuto – “maestro” della scrittura. Una scrittura psicologica, articolata e profonda, mai autoreferenziale sul piano estetico, che progressivamente discende nel fondo dell’anima, poiché ha di mira esclusivamente il cuore e l’essenza dello spirito. Particolarmente lodevole, allora, la recente iniziativa della casa editrice Archinto che ha da poco pubblicato il bel volume Il libro come accesso al mondo e altri saggi, nella mirabile traduzione di Simonetta Carusi, che raccoglie articoli e recensioni redatte tra il 1905 e il 1931.

Il volume rappresenta un’appassionata celebrazione dell’oggetto “libro” ai primordi del Novecento e, al tempo stesso, un’esaltazione della cultura come collante e propulsore di civiltà. Scrive Zweig, attraverso la sua inconfondibile e dettagliata prosa: “Tutto o quasi tutto il movimento spirituale del nostro mondo oggi si fonda sul libro, e il sistema di valori condivisi che chiamiamo Cultura sarebbe impensabile senza la sua esistenza. Il libro ha il potere di dilatare l’anima e costruire mondi nella nostra vita interiore, ma noi ce ne avvediamo di rado, e quasi sempre solo nel tempo libero: è troppo ovvia oramai la sua presenza nella nostra sfera lavorativa perché noi possiamo cogliere ed apprezzare il miracolo che si rinnova ogni volta che ne apriamo uno” (p. 18).

Zweig attribuisce dunque al libro una funzione “innovativa”, “sovversiva”, “rivoluzionaria”, nell’ambito della storia umana. Esso ci consente di oltrepassare i limiti spazio-temporali in cui siamo naturalmente confinati e di aprirci al dialogo con altre persone e altre culture, condividendo quella imperscrutabile humanitas che è (o dovrebbe essere) il tratto peculiare dell’homo sapiens: “Ovunque, non soltanto nelle nostre vite individuali, il libro è l’alfa e l’omega di ogni sapere e l’inizio di ogni scienza. E quanto più si vive in intimità con i libri, tanto più profondamente si sperimenta la totalità della vita, perché colui che ama i libri, grazie al loro aiuto, vede e comprende il mondo in modo miracolosamente potenziato, non solo con i propri occhi, ma con lo sguardo di innumerevoli anime” (p. 30).

Come sappiamo, l’intellettuale viennese dedicherà al mondo della lettura e della letteratura il meraviglioso racconto Mendel dei libri (1929), che si conclude emblematicamente con queste parole: “[…] i libri si creano solo per continuare a restare uniti agli uomini ben oltre la breve durata del nostro respiro, e difendersi così dall’impietosa controparte di ogni esistenza: la caducità e la dimenticanza”. Proprio per lenire l’inesorabile fugacità del tempo e la spietata condanna dell’oblio, e parallelamente promuovere valori universali in grado di forgiare una visione del mondo basata sulla libertà, la moralità e il cosmopolitismo, Zweig, con passione argomentativa e rigore speculativo, recensisce opere di Freud, Rilke, Joseph Roth, e al contempo disquisisce sulla fiaba, come genere letterario, e sulla celebre raccolta di novelle orientali Mille e una notte.

Ciò che emerge da questi contributi sparsi (ma non affatto secondari o minori all’interno della vasta produzione del raffinato letterato e saggista mitteleuropeo) è lo sconfinato amore, la smisurata dedizione che Zweig rivolge verso le cosiddette Geisteswissenschaften. Zweig è infatti un lettore accanito, onnivoro, che divora indistintamente romanzi, testi di poesia, saggi psicanalitici, ma che non disdegna di “ritornare” alle atmosfere irreali ma istruttive della fiaba: “Nelle fiabe non c’è niente di vero e niente che risponda alle leggi del nostro mondo, eppure tutto è reale finché siamo disposti a crederci – e sono ormai secoli che crediamo a tali, effimere bugie” (p. 43).

In controtendenza rispetto alla “situazione spirituale del tempo”, dominata dal monotono e sterile “pensiero calcolante” che svilisce e depaupera l’interiorità dell’uomo, Zweig si pone dunque come strenuo difensore della cultura umanistica, poiché solo su di essa è possibile attingere l’autentica e feconda sostanza di cui si nutre, giovandosi, la psiche umana: “I libri – rammenta ancora Zweig – conservano, come fossero accumulatori, una corrente spirituale che si propaga e genera nuova energia. Sono l’inesauribile riserva del nostro sapere, le pietre fondanti del monumento eternamente incompiuto della nostra immagine del mondo” (p. 109).

Carla Stroppa, Gli spostati

È buio il mattino che passa / senza la luce dei tuoi occhi.
(Cesare Pavese, 30 marzo 1950)

“È difficile amarsi se nessuno ti rimanda l’immagine…”. È una delle celebri frasi del meraviglioso film in bianco e nero “Angel-a” (2005) del regista francese Luc Besson. La scena è poetica ed emozionante: André (Jamel Debbouze) e Angel-A (Rie Rasmussen) sono allo specchio. André, disadattato e impacciato, non riesce ad esprimere i propri sentimenti all’avvenente e statuaria Angel-A. Incespica con le parole, abbassa lo sguardo, per timidezza e per il troppo amore represso. Angel-A, amorevolmente lo sostiene e lo esorta a comunicare i propri sentimenti e a liberare la propria anima, perché soltanto nell’amore corrisposto l’io si sente “a casa”, presso di sé, al riparo dai dardi del tempo e in accordo col mondo. La scena è suggestiva, emblematica e potrebbe fungere da “metafora cinematografica” per il bel libro della psicoanalista junghiana Carla Stroppa, edito da Moretti & Vitali, Gli spostati. Vivere senza amore.

Che ne è infatti dell’anima in una vita “senza amore”? Che ne è dell’Io che non è riconosciuto da un Tu e che non è visto dal suo sguardo? Che ne è della psiche smarrita e scoraggiata nel “labirinto della solitudine”, parafrasando Octavio Paz? E cosa dire di un corpo inerme, che non conosce il calore di un abbraccio o la vibrazione di una carezza, ma che si strugge nel desiderio di poter accedere al corpo dell’altro? Non è una questione irrilevante o di poco conto, da un punto di vista esistenziale o psicologico, bensì una questione che attiene al fondamento originario del nostro “stare al mondo”, all’equilibrio o alla stabilità del soggetto, dal momento che, come ricorda Sartre ne L’essere e il nulla: “È questo il fondo della gioia d’amore, quando c’è: sentirci giustificati d’esistere” (p. 421).

L’articolato e approfondito saggio di Carla Stroppa tenta di rispondere a tali domande, facendo leva su una solida competenza psicoanalitica: “‘Spostati’ è il termine che magnetizza il ricordo di tante persone incontrate in analisi che, pur nella differenza delle loro storie e delle loro personalità condividono un sentimento di estraneità e di mancanza di amore. Stanno male nel posto in cui vivono, la famiglia, il lavoro, la società. Si sentono fuori, spostati appunto dal centro palpitante di se stessi e del mondo” (p. 13). L’assenza d’amore, la “ferita dei non amati”, per dirla con Peter Schellenbaum provoca un perturbante, penoso e avvilente sentimento di smarrimento e spaesamento, una mancanza di “mondo” e di possibilità. Gli “spostati” sono privi di coordinate vitali, arrancano nei gesti e nei movimenti e “non riescono nemmeno più a immaginare di poter vivere aderenti al loro piano di autenticità” (p. 25). In una situazione di tale fattura, la speranza cede il posto inesorabilmente alla disperazione, al “sole nero”, descritto lucidamente dalla filosofa francese Julia Kristeva.

Per avvalorare la propria tesi interpretativa, Carla Stroppa ricorre all’insegnamento di Jacques Lacan: “il soggetto si istituisce come tale quando è guardato dallo sguardo di un Altro. È nello sguardo di un altro che l’Io viene alla luce, letteralmente fotografato da tale sguardo” (p. 30). E aggiunge: “non essere visti e riconosciuti è un vero e proprio trauma: è la radice tentacolare dalla quale nascono i blocchi e le deformazioni della personalità” (ibid.). Difatti: “la psiche orfana d’amore e di riconoscimento essenziale non riesce a stare al passo con l’Io, lo confonde, barcolla, annaspa in struggente ricerca di un’altra centratura” (p. 37). Perché: “Se manca l’amore, la forza dell’eros che connette, collega, riunisce, è la vita stessa a mancare anche quando il pensiero svolge la sua parte” (p. 50).

Per attenuare la “malattia mortale”, quel sentimento di vuoto asfissiante che afferra tutto il nostro essere e ci debilita, privandoci di “slancio vitale”, è di aiuto, secondo Carla Stroppa, la letteratura: “La letteratura è sempre un secondo mondo che in parte compensa la povertà e la mancanza di senso del primo, aprendo il cuore e la mente al possibile” (p. 39); “La grande letteratura ha sempre soccorso l’individuo che cerca di connettersi con l’anima del mondo, per individuare il riflesso di sé nell’arazzo complessivo che la psiche ha tessuto in tempi e spazi differenti. Certo le pagine scritte non sostituiscono lo specchio d’affetto e di calore che possono offrire le relazioni vive e vere con le persone presenti nella vita di tutti i giorni. Certo che no, tuttavia se quelle persone mancano o lo specchio che offrono è deformante, occorrerà cercare altrove il riflesso di sé” (p. 61).

La storia della letteratura, in altre parole, è un labile palliativo, un’effimera consolazione, che trasfigura in arte l’urlo strozzato dell’anima, un modo per resistere alla vita, nonostante la “scissione intrapsichica”. Guardate in trasparenza, “controluce”, le opere d’arte non sono altro che la manifestazione fenomenica di una mancanza d’amore, un modo, l’unico che abbiamo, per mitigare la ferita del desiderio infranto, del sogno irrealizzato.

Filosofia e psicoanalisi, Le parole e i soggetti

Le nostre ferite sono le nostre genitrici.
(Aldo Carotenuto, 1996)

Nel mondo contemporaneo, ogni aspetto che riguarda l’uomo è dominato dalla tecnica. Ma c’è un aspetto che si sottrae al dominio delle sue procedure omologanti ed è la “soggettività”, la singolarità irripetibile di ciò che ogni uomo è, nel profondo del proprio essere, il suo vissuto. Da un lato siamo immersi in una realtà fortemente pianificata e regolata, dall’altro emerge in maniera chiara e lampante che la tecnica, nonostante tutto il suo “apparato”, nulla può rispetto alla finitezza e alla precarietà della vita, al suo cuore pulsante: la solitudine, il dolore, l’amore, ecc. Di fronte a determinate esperienze o “situazioni-limite”, la tecnica vacilla, letteralmente “non funziona”. Ineludibile risulta pertanto la costante ricerca di un senso, di un perché in grado di giustificare, in qualche modo e provvisoriamente, il nostro “stare al mondo”.

Filosofia e psicoanalisi tentano di rispondere, con la debole arma della riflessione e del pensiero, del silenzio e della parola, a tale impetuosa e impellente esigenza, ed è proprio al rapporto tra le due discipline che è dedicato il bel libro di interviste, scorrevole nella lettura perché coinvolgente e appassionante, Filosofia e psicoanalisi. Le parole e i soggetti, a cura di Davide D’Alessandro (Mimesis, 2020). Il libro si presenta suddiviso in due parti: la prima (Filosofia, il destino del logos) dedicata a conversazioni con autorevoli filosofi e intellettuali italiani, la seconda (Psicoanalisi, architetture psichiche), a interviste con psicanalisti di diversa scuola e orientamento. Inutile dire che tale separazione risulta essere soltanto di carattere formale, perché filosofia e psicanalisi costituiscono un intreccio indissolubile di esperienze ermeneutiche, tese, come ricordava Alberto Zino a fronteggiare “il male” (cfr. A. Zino, Psicanalisi e filosofia. Il male, Edizioni ETS, 2004).

Nella sua Premessa il curatore riconosce, infatti, che “Filosofi e analisti lavorano da laboratori diversi lo stesso materiale: l’uomo” (p. 12). L’uomo, appunto, come essere finito, gettato nella vita e chiamato a realizzare se stesso nel caos di un divenire assurdo. Con parole esemplari, lo ricorda in una delle interviste il filosofo bolognese Carlo Sini: “Decide la vita in noi: ne siamo i portatori, con tutto il peso della responsabilità e del rimorso e la sensazione che ci sia stata fatta una violenza o un’ingiustizia. Ma infine, direbbe Nietzsche, che importa di te? Dì la tua parola e infrangiti in essa” (p. 80). Sulla stessa linea di pensiero anche Salvatore Natoli, teorico dell’etica del finito, secondo il quale: “La vita ha molti nodi. Uno di essi è proprio il dolore. E quando lo provi, ne esci diverso, cambiato, mutato. Ma ci sono i nodi delle scelte, del cosa fare, del cosa decidere, in base agli accidenti dell’esistenza. Per esempio la scelta di un legame, la capacità di costruirlo e di tenerlo nel tempo” (p. 135).

Anche sul versante della psicoanalisi non mancano voci di assoluto rilievo, in grado di gettare luce sulla “perturbante” dimensione umana, caratterizzata dall’inquietudine e dall’angoscia. Tra le più autorevoli, certamente quella di Eugenio Borgna, che riconosce in apertura del suo intervento che “Fare lo psichiatra o la psichiatra significa avventurarsi lungo un cammino che non si conosce e non si conoscerà mai, perché il suo oggetto è la vita interiore di una persona che sta male ed è la sola che conosce quello che sente e quello di cui ha bisogno” (p. 141); e poco dopo, in risposta ad un’altra domanda aggiunge: “[…] il mistero della vita interiore oltrepassa ogni rigido criterio tecnologico” (p. 142). Così pure, sostiene Massimo Recalcati: “Il dolore è un’esperienza di divisione. La psicoanalisi lavora su di un soggetto diviso” (p. 149).

Il filo conduttore che attraversa i vari interventi è dunque la consapevolezza del “limite”, della “fragilità” e della “precarietà” che caratterizza la sfera umana. È una condizione di “disagio” e di “squilibrio” che fa appello alla filosofia e alla psicoanalisi non come rimedio definitivo alla sofferenza, ma in quanto parola che lenisce e allevia, in ogni caso, umanamente consola. Lapidario nella sua disamina è Nicolò Terminio: “Il sapere degli ‘psi’ è sempre una coperta troppo corta rispetto al Reale della clinica e della vita” (p. 167). Perché la vita è eccedenza che irrompe e che sconvolge ogni pensiero e ogni teoria (filosofica o psicoanalitica che essa sia). Pur tuttavia, di fronte all’impetuoso e inarrestabile fluire della vita, di fronte all’insensato scorrere del tempo, che costantemente ferisce e sradica, filosofia e psicoanalisi sono i “luoghi” privilegiati dove la nostra anima può cercare riposo e ritrovare se stessa. Esse non forniscono verità o certezze assolute, ma piuttosto, l’invito a ciascuno di vivere una vita autentica, realizzando le proprie potenzialità.