Francesco Di Benedetto, Il posto

Scrivere è entrare nell’affermazione della solitudine, dove incombe la fascinazione.

(Maurice Blanchot)

Dopo aver presentato al pubblico italiano diverse raccolte poetiche (“Per non dimenticarmi”, 2018; “Lettera a mia madre”, 2018; “Antonio e Maria Renata”, 2019), il giovanissimo poeta romano Francesco Di Benedetto (classe 1982) ha di recente pubblicato, per la casa editrice Ensemble, una nuova raccolta di versi: “Il posto” (2021). Un unico filo conduttore lega in maniera strutturata e articolata il percorso poetico e introspettivo dell’autore: la malattia e la morte del padre. Proprio nell’ultima silloge leggiamo (p. 21):

La mia opera non ha titolo. / C’è una dimensione temporale. / È stata una parola per un padre malato, e poi morto. / Si estende nel libro e nel web. / I miei libri evaporano nel web, che contiene un principio del lutto. / I libri raccolgono il principio della persona. / La mia opera è un apparato di figure che danno luce e parola a una / psicosi, curata da anni. / Questa psicosi si associa alla figura di mio padre. / La mia parola esiste solo perché conosco Rachele. / Il mio gesto è figlio della nostra comunicazione. / Rachele mi disse che il mio fu “il regalo più bello di un figlio a un genitore”. / È vero, perché mio padre era diventato una pagina bianca da quando / ho incominciato ad avvertire la sua presenza nel mio male. / L’ho restituito alla vita e al rapporto con il figlio. / L’unico rapporto cosciente con mio padre è stato con mio padre / malato. / Sono le tre fotografie che mi rimangono.

La scrittura di Di Benedetto è una scrittura della precarietà e della finitezza, che si esplica attraverso la frammentazione della parola e che trova nella parola frantumata, scheggiata, un possibile sollievo per lenire momentaneamente il trauma della perdita, l’inquietudine di esistere: “Vengo in mezzo / al nulla / brancolando l’asfalto / restio. / La vergogna nella / mia lingua / la paura di non sopravvivermi” (“Lettera a mia madre”, p. 18). È una scrittura volutamente sintetica, ma, al tempo stesso, oltremodo intensa e lirica, che canta la drammaticità e la tragicità dell’ex-sistere: “Timide / mute / le nostre parole / non dicono / la febbre / feconda / di un legame. / Segreti / e radici / si guardano / tra stagioni diverse: / siamo / la massa / sonora / di un iceberg” (“Per non dimenticarmi”, p. 19).

Come dire il rapporto “padre-figlio” che si è improvvisamente reciso, definitivamente spezzato? Come alleviare la ferita della perdita, il “deficit” del contatto con l’origine della propria identità? A tu per tu con sé, nel fondo abissale della propria interiorità scissa, il poeta non trova altri interlocutori, oltre sé e le cose mute, cui affidare e confidare lo sconforto dei propri pensieri: “Cammino / insieme a / me” (“Antonio e Maria Renata”, p. 29); “Debole / davanti al divano / il televisore / mi racconta / le tue ossa / spezzate” (Ivi, p. 31); “Lo specchio sa / delle mie nostalgie / tristi. / Occhio / angolare, / feriva / al baluginare / delle vite / e dei volti degli altri, / sull’oblò della mia nave / senza timone. / Specchi / non mentono. / Gravida di desiderio / impudico, / per anni, / la mia solitudine” (“Per non dimenticarmi”, p. 33).

Nonostante ciò, a dispetto della giovane età, Di Benedetto si avvinghia caparbiamente e tenacemente al dire poetico, come estremo tentativo per uscire fuori di sé; scalfire il freddo glaciale e la solitudine spettrale della propria anima e relazionarsi con il mondo, fosse anche il mondo limitato di pochi lettori. In Lettera al lettore leggiamo infatti:

Caro lettore, / io so che non sei un lettore comune. / Dico questo per due ragioni. / Innanzitutto perché sei un libro. E / questo già non può essere possibile. / In secondo luogo perché questo libro che / sei era mio padre. / Io ti ho trapanato. / L’ho fatto con odio e con amore. / Credo di averti aiutato. / Ho sconvolto le tue cornici. / Sono passato nella impaginazione. / Ho devastato la struttura, che non era solo titolo tuo. / Questo regalo è il più grande, perché / stavi morendo. / Il mio libro è compreso in due date. / La prima è prossima alla tua morte. / La seconda che è la sua conclusione / formale sono le mie allucinazioni. / Io sono una persona malata. / Ti sei reso conto della vita e della / sopravvivenza che si erano nascoste / dietro di te. / Sono andato fuori della dimensione / materiale. / Vivo con Rachele e spero di vivere sempre / insieme a lei.

Oltre l’invalicabile muro nella comunicazione interpersonale, oltre la monade chiusa di ciò che siamo, oltre il solipsismo, la speranza risiede proprio nell’amore. Ce lo ricorda la psichiatra americana Kay Redfield Jamison nel meraviglioso volume Una mente inquieta: “Ogni volta che il cuore e la mente mi sono sembrati morti, l’amore è tornato a ricreare la speranza e a restituirmi la vita. Ha reso sopportabile la tristezza intrinseca della vita e manifesta la sua bellezza. In modo inspiegabile e salvifico, è stato un mantello e una luce per le stagioni fredde e i tempi bui” (p. 207).

Anche i libri di Di Benedetto sono esplicita testimonianza di ciò. L’amore per l’amata Rachele è ciò che lo sorregge e lo “salva”, nella perturbante radura del Nulla.