Andrea Pomella, L’uomo che trema

Leggendo lo splendido romanzo autobiografico di Andrea Pomella, recentemente pubblicato dalla casa editrice Einaudi (settembre 2018), ho ripensato spesso ad altri testi simili che presentano lo stesso afflato emotivo (pathos) e che sorgono da una medesima esigenza psicanalitica-lenitiva (la scrittura come “cura dell’anima”, “mezzo di liberazione”, “bisogno di consolazione”). Mi sovviene alla memoria, ad esempio, Le parole per dirlo di Marie Cardinal o Una mente inquieta di Kay Redfield Jamison, senza voler scomodare i celeberrimi Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa o Al culmine della disperazione di Emil Cioran. Cosa accomuna questi testi? Sono semplici racconti inventati, storie romanzate, sterili esercizi di narrativa introspettiva o piuttosto l’ultima àncora di salvezza (per l’autore) per sopportare l’insostenibile peso di essere al mondo, schiacciati e oppressi dalla “coscienza infelice”, da un ineffabile tormento interiore?

«Da dove viene questo sole nero?», si chiedeva la psicanalista bulgara Julia Kristeva, «Da quale galassia insensata i suoi raggi invisibili e pesanti mi inchiodano al suolo, al letto, al mutismo, alla rinuncia?» (Sole nero, Donzelli, p. 7). Anche Pomella, intimamente accecato dai raggi oscuri del Sole nero, e dunque impossibilitato a stabilire un contatto positivo con il mondo in termini di apertura e possibilità, cerca di rispondere a tale interrogativo, analizzando attraverso la scrittura i motivi alla base della propria intima insofferenza e ripercorrendo le tappe salienti della propria esperienza biografica. In maniera assolutamente lucida, Pomella riconosce che: «Soffro di questa malattia che la comunità scientifica definisce sommariamente depressione maggiore da quando ho coscienza del mondo, da quando cioè ho occhi e cuore per decifrare la realtà che mi circonda, perciò direi dalla più tenera età» (p. 7). E ancora:

L’origine profonda della mia sofferenza è radicata in me, nel mio essere, attraverso il corpo e la psiche. Il male non è estraneo a me, non è un batterio che è stato inoculato in me, un germe che prima di essere ospitato all’interno del mio organismo possedeva vita propria. Non esiste una causa. Non il padre che mi è mancato, e neppure l’infanzia vissuta in un’abietta precarietà, bensì una deformazione intellettiva, organica, una disposizione di natura. Io sono l’orso, io sono la minaccia, io sono il male di cui soffro (p. 24).

Se è vero che l’Autore soffre di una Stimmung depressiva congenita, e che quindi vi è una predisposizione malinconica innata (fisiologica), è altrettanto vero che durante la sua infanzia, quando il bambino necessita di modellare e consolidare la propria personalità, avendo come costante punto di riferimento il Padre, avviene una deflagrazione improvvisa, uno sconvolgimento inatteso che innesca una reazione a catena devastante, uno tsunami psichico ed emotivo. All’età di sette anni infatti, Pomella percepisce il “crollo” del proprio mondo-ambiente, il venir meno dell’unità familiare, e dunque la “separazione”, la “scissione”, la “lacerazione”, la “ferita”, causata dall’abbandono del padre del contesto familiare: «Il padre che mi abbandonò in favore della donna di cui si era innamorato, e la madre che per temprarmi alla vita mi mostrò l’aspetto duro e avvilito della realtà umana: questi furono i principali detonatori della mia malattia» (p. 36).

Avendo vissuto la repentina e insanabile ferita dell’“abbandono”, Pomella decide di recidere volontariamente qualsiasi contatto con il padre, confidando sul supporto esclusivo della figura materna: «Eppure fui io a prendere la decisione di rinunciare a lui, e la presi consapevolmente: decisi di non avere un padre, d’infliggermi la mutilazione, di farmi bastare la madre. Così, dall’età di sette anni, non ho più voluto frequentare mio padre, ho rinunciato a esserne figlio, l’ho rinnegato» (p. 37); «Da allora ho vissuto come un orfano, convinto che mio padre fosse morto, e ben presto anche lui dev’essersene convinto, tant’è che ha smesso di aspettarmi fuori dalla scuola, ha smesso di telefonarmi, di spedirmi regali a Natale e al mio compleanno: ben presto il padre abbandonato ha accettato l’idea di aver perduto il figlio» (p. 39).

Afflitto da una depressione sempre più acuta, in età adulta, blandamente sedata dagli psicofarmaci e dalle amorevoli cure della moglie Grazia e dai giochi del piccolo Mario (suo figlio), Pomella si interroga incessantemente se non sia stato proprio la sua decisione di abbandonare il padre ad aver cronicizzato la sua condizione infelice, caratterizzata da notti insonni e crisi di panico e soprattutto dalla carenza di autostima e fiducia di sé: «La mia maledizione sta nel fatto che, per raggiungere ciò a cui aspiro, mi occorre il triplo della fatica che occorre solitamente a un povero cristo non maledetto. Io – che sono maledetto – convivo con la fatica, una fatica disumana, bestiale, una fatica che mi toglie il gusto delle cose. Credo che la mia maledizione sia la maledizione di Sisifo che spinge il masso. Solo che a volte io non mi sento Sisifo. Mi sento il masso» (pp. 33-34); «Nelle mie vene scorre solo il filo di energia che serve a tenermi in vita, per il resto sono niente più che una pelle di serpente, il brandello organico di una creatura arresa» (p. 51); «La paura che ho di me stesso è […] collegata alla profonda disistima che nutro nei miei confronti. Disistima intellettuale, fisica, caratteriale, pratica. Io disistimo la mia ampiezza di pensiero, disistimo il mio aspetto, il mio corpo, il mio temperamento, la mia capacità di far fronte ai problemi della vita quotidiana» (p. 151).

Di fronte alla percezione del Nulla, del Nulla assoluto che abita il cuore e la mente, della “notte oscura” che offusca l’anima e svilisce lo slancio vitale sino ad annullare la “volontà di vivere”, a nulla vale il trattamento analgesico farmacologico proposto dalla moderna psichiatria: «L’antidepressivo che mi ha prescritto il medico psichiatra non ha alcun effetto sull’autostima, agisce in superficie, leviga le asperità più visibili, cura i difetti conclamati, ma non arriva più a fondo» (p. 28). E ancora:

Il medico psichiatra non ha idea di quanto vasto e multiforme sia l’oceano del mio mare, di quante leggendarie bestie marine vi dimorino, per lui la mia depressione maggiore non è che un piccolo stagno in tempesta. Ma del resto non facciamo delle sedute di psicanalisi. Non è suo compito sviscerare la mia psiche, portare alla luce il mio subconscio. Il suo compito è trovare la giusta proporzione chimica, il trattamento più adeguato a togliermi dalla testa le idee inconsulte, per obnubilare un poco la visione della realtà che negli ultimi tempi si è fatta in me così netta, per rendermi quel poco di ubriachezza necessaria a vivere in sintonia con gli altri esseri umani (p. 51).

A soccorrere Pomella, dalle ferite sanguinanti della propria esistenza scissa, dalla palude stagnante di giorni vuoti, senza senso, come sempre accade è la magia dell’amore. Questa volta è l’amore innocente del figlio che inconsapevolmente salva il padre dalle spire perverse di un dolore abissale, che vaneggia talvolta un suicidio liberatorio. Il piccolo Mario, ingenuamente, chiede di conoscere il nonno: «Per Mario conoscere il nonno sconosciuto è poco più che una curiosità. Per me, o meglio per il bambino che c’è ancora in me, è uno sconquasso totale» (p. 49). A distanza di molti anni, Pomella accantona ogni timore e qualsivoglia sentimento di rancore verso il padre e decide di esaudire il sogno del bambino. L’incontro si rivelerà una gioia immensa per il piccolo Mario e un’occasione per Pomella per riappacificarsi con la vita, un’opportunità per ritrovare se stesso ed un labile equilibrio nel suo faticoso cammino nel mondo:

Lui è lì, da qualche parte, dietro la porta. Ho passato i miei ultimi trentasette anni a contorcermi nel pensiero di tutto il male che quest’uomo mi ha procurato. Il mio carattere oscuro e saturnino, la mia malattia, l’inettitudine, l’asprezza dei miei comportamenti, la misantropia, la grana sottile della mia pelle, la mia visione del mondo, tutto dipende da questo, e ora questo è dietro la porta, con le mani in tasca, il collo incassato tra le spalle, gli occhi rossi, lucidi, un sorriso così docile e remissivo che tutto implode in un istante. La mia gigantesca stella maligna collassa verso il proprio centro. Dopo un millennio di tempeste astrali, l’universo torna in quiete (p. 179).

POMELLA